Questo articolo ci è stato donato, in occasione del nostro primo “complimese”  dal collega Ugo Albano : assistente sociale specialista, pubblicista e giornalista e clown!

“Maschio, sudista, giocherellone, pigro,godereccio, amante della buona compagnia” così si descrive colui che per primo ha voluto rispondere alla nostra chiamata e scrivere di servizio sociale, benessere, generatività…e felicità! 

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BENESSERE E FELICITA’ NON SONO SINONIMI

Una riflessione alla ricerca di nuove dimensioni del servizio sociale

Se è vero che il servizio sociale persegue, come fine ultimo, il benessere dell’essere umano, non è per nulla detto che quest’ultimo, raggiunto il benessere stesso, si senta felice; anzi, se non c’è percezione di felicità, è lo stesso benessere a diventare relativo ed è quindi buona norma che l’assistente sociale italiano inizi a dare più senso al suo lavoro connettendo sempre di più l’azione non al benessere in sè, ma alla ricerca della felicità. La stessa relazione tra qualità prestata e qualità percepita, su cui di recente molto si parla nel campo dei servizi alla persona, ruota proprio attorno al rapporto tra benessere e felicità. Il benessere, infatti, può solo essere prodotto, mentre la felicità può solo essere percepita.

 

Che il benessere produca felicità, invece, è un paradigma della società moderna, esistita in Italia più che altro dal dopoguerra fino agli anni ’80 circa, in cui con la presenza di un reddito (e se questo mancava, o era insufficiente, il welfare “compensava”) bastava a “far star bene”. Il  passaggio alla società postmoderna rappresenta il superamento del trinomio “reddito-benessere-felicità” ed evidenzia il paradosso della non corrispondenza tra benessere e felicità, sia perchè si assiste ad una distribuzione delle risorse nel nostro Paese, sia perchè si registra una diversificazione della percezione stessa del proprio essere felici.

 

In conseguenza a tutto questo discorso, credo che  per ogni assistente sociale sia cosa buona percepirsi in una situazione di “trapasso” tra il paradigma della modernità e quello della postmodernità, cioè tra situazioni di carenza reddituale da supportare e situazioni che comunque non funzionano, seppure in presenza di reddito. Il problema rifugge pertanto da una prassi di semplice “fare”, che può amplificare il paradosso (insistere per esempio con l’assistenza economica su persone incapaci di gestirsi), per aggredire un nuovo modo pensarsi in riferimento ai nuovi fenomeni sociali; si tratta di abbandonare nell’ambito del servizio sociale il vecchio concetto di benessere, connesso al reddito o alla limitazione di una malattia, per passare ad un nuovo paradigma operativo di “accompagnamento alla felicità”, il che richiede un canale dialogico col soggetto e non (solo) una mera “dazione”. Il “paradosso postmoderno” riporta   il servizio sociale stesso alle origini della sua identità: esso ritorna a definirsi tramite la relazione per l’autosviluppo della persona e non tramite le prestazioni per una (supposta) assenza di risorsa.

 

Che non esista un rapporto di diretta correlazione tra reddito e la felicità stessa, ciò ci deriva dal fatto se consideriamo la variabilità geografica stessa di tale rapporto. A capire ciò ci aiuta uno studio pubblicato sul “Journal of  happiness Studies” dell’Università Erasmus in cui si illustrano i gradi di percezione della felicità da parte delle diverse popolazioni del mondo in rapporto al reddito. Colpisce, per esempio, che paesi poveri, come Nigeria, Vietnam,  Messico e Filippine, esprimano alti livelli di felicità percepita come le ricche Olanda, Svizzera, Svezia e Gran Bretagna. Esiste in generale una predominanza del mondo latino-americano in fatto di felicità, anche in situazioni di estrema povertà, come in Portorico e in Colombia, le cui popolazioni sono immerse in contesti normativi e culturali che spingono ad enfatizzare  gli aspetti positivi dell’esistenza. All’opposto Paesi relativamente  ricchi, come il Giappone, la Cina o la Corea del Sud, da anni interessati da un forte boom economico, tendono a subordinare le “felicità individuali” alle esigenze dei sistemi, statali o aziendali che siano, non ponendosi il problema stesso, con tutto quello che ne può conseguire.

 

Il nostro Paese, invece, pur compreso nel gruppo dei “redditi alti”, sebbene sorretto da un sistema democratico deputato alla soddisfazione di ognuno, registra il più basso livello di felicità. Semplicemente detto: anche se l’Italia presenta una stabilità reddituale consistente al pari di altri Paesi ricchi, anche se le condizioni politiche garantiscono la persona e la sua piena autodeterminazione, la sua popolazione non si sente felice. Ciò dovrebbe far riflettere ogni assistente sociale.

 

Eppure, riferisce uno studio effettuato da due studiosi (Ed Biswas-Diener e suo figlio Robert) delle università rispettivamente dell’Illinois e dell’Oregon, la felicità in ambito planetario tende a perdere la tendenza alla differenziazione geografica, e quindi culturale, e ad avere una base comune nel genere umano: è come se il cervello stesso fosse pre-programmato per anelare alla felicità.

Se pertanto esistono differenze di atteggiamento tra i diversi popoli, come detto, esistono anche elementi “trasversali”  validi a tutti per “autocostruirsi” la felicità.  A ciò ci ha pensato uno studioso statunitense, tale Martin Seligman, il quale ha ricercato la “ricetta comune”, estremamente utile specialmente per i professionisti dell’aiuto di ogni latitudine. Secondo costui la felicità richiede non solo la soddisfazione dei beni di base, ma anche e specialmente un atteggiamento di ricerca da parte di ognuno di questa felicità, nel senso che la felicità stessa tende ad essere sempre di più un obiettivo in divenire e mai statico, una prospettiva e non uno status. Importanti, secondo Seligman, sono la ricerca di un piacere “misurato”, la capacità di relazione con la propria famiglia, l’esercizio dei sentimenti, la passione sia per il proprio lavoro che per il tempo libero ed infine il bisogno di dare senso al quotidiano.

 

Il servizio sociale quindi, in questa società postmoderna e tendente ad una percezione “globalizzata” della felicità, vista anche la forte mobilità sociale, richiede una propria ridefinizione di senso, sia per recuperare un proprio ruolo autonomo dalla semplice funzionalità all’organizzazione, sia per essere davvero più efficace. Insistere sul vecchio modello caritativo-redistributivo-suppletivo significa non solo essere anacronistici, ma sparire dal mercato. Il bisogno nuovo (e vecchio, mi viene da dire) è quindi l’accompagnamento relazionale, la consulenza, non la prestazione o lo “sportello”. Si tratta, in fin dei conti, di trasformare il senso stesso della professione da una “gestione del benessere” ad un “accompagnamento verso la felicita”, in cui il “dare” diventa davvero cosa relativa.

Ugo Albano