Come passa il tempo quando ci si diverte!!!

…e come ci si diverte, quando il tempo che trascorre ci riavvicina al riavvio delle attività che amiamo e che piacciono!!!

ECCOVI QUI , ECCOCI QUI!

Agosto è terminato , Settembre è già bell’e che iniziato e noi , come promesso, ricominciamo in modo “nutriente” il riavvio delle nostre attività sul nostro Blog e Diario di Bordo !

Chi vi voi ci segue da un pò sa già che Ugo Albano,  assistente sociale specialista, pubblicista e giornalista e clown è un ospite gradito del nostro Blog.  Ugo ha, infatti, inaugurato ad Aprile u.s.  la sezione “contributi” del nostro blog rispondendo per primo alla nostra chiamata e scrivendo un interessante articolo che parla  di servizio sociale, benessere, generatività…e felicitàPer chi di voi, invece, ancora non conoscesse il nostro collega e volesse saperne di più su di lui e sulle sue molteplici creative e attività e  offerte professionali , l’invito è a leggere il precedente articolo che ci ha  donato e cliccare qui:   Ugo Albano . 

Questo mese il tema  che vi proponiamo è la CONDIVISIONE!

 Ugo , “maschio, sudista, giocherellone, pigro,godereccio, amante della buona compagnia” – così si descrive egli stesso- , ci ha donato un contributo nutriente che parla non solo di condivisione ma anche di cibo, ma anche di servizio sociale ! 

Buona lettura a tutti e Grazie Ugo ! 

CIBO & SOLIDARIETA’

L’assistente sociale, per non scomparire, deve smetterla di “dare” (un contributo, una valutazione, un buono-pasto) e deve (re)imparare ad “addestrare” le persone all’autonomia. Ciò richiede non solo i classici percorsi di counseling e le ancor più vetuste pratiche di controllo ambientale, vengono richiesti percorsi un po’ più innovativi e molto più pratici. Si parte dal livello più semplice dei bisogni, che è quello alimentare: riportare questo verso canoni più salutari e più educativamente validi è cosa buona e giusta, coerente con il corpo metodologico della professione e foriero di piste nuove del lavoro di aiuto, specialmente nella libera professione.

Ma partiamo dall’inizio, affermando che il mangiare è da sempre un’esigenza vitale dell’uomo: Maslow pone l’alimentazione, al pari della sessualità, della respirazione e del sonno, tra i bisogni “primari”, cioè quelli senza dei quali non si può vivere. Parliamo di un’esigenza individuale, perchè il metabolismo richiede sostanze nutritive per funzionare, parlo di acqua, pane, verdure e carne. Eppure la risposta dell’uomo a questo bisogno è prettamente sociale. Se cioè l’operazione dell’introiezione del cibo è funzione individuale (non abbiamo cioè bisogno degli altri per mangiare), la sua consumazione va sempre a recuperare dimensioni gruppali, tipiche del contesto in cui si vive o da cui si origina. Questo assunto antropologico è fondamentale: da quando esiste l’uomo sulla faccia della terra la ricerca, la raccolta, la conservazione, la preparazione e la consumazione del cibo sono tutte attività svolte in gruppo e con significati di squisita natura culturale.

Se una delle definizioni della parola cultura riguarda il “rapporto tra uomo ed ambiente”, la cucina è appunto una meta-modalità di relazione del singolo col contesto. Il mangiare trascende quindi dal mero livello materiale e va sempre più a riguardare ambiti di alterità, vale a dire squisitamente culturali. Se un neonato succhia il latte del seno guardando la mamma, se ogni pizzata è genuina occasione di rivedere gli amici, se per la festa di compleanno la mamma prepara con la proprie mani la torta, se la cena a lume di candela diventa occasione di intimità per due innamorati, ecco che nel quotidiano il cibo è già cultura. Cultura dello stare assieme, della condivisione, della comunicazione, dell’amicizia, finanche della spiritualità: si pensi alle pause-pranzo sui cantieri o nelle campagne, ma pure alle tavolate tra amici e finanche al rito della eucarestia nei culti cristiani. Non è un caso che in tali occasioni il commensale venga chiamato “compagno”: se il latino rivela il suo significato più intimo (compagno = cum panis, cioè “colui che condivide lo stesso pane”), ecco che il “mangiare assieme” porta con sè sempre contenuti affettivi, di amore, spirituali, perfino mistici.

D’altra parte in ciò si differenzia la cultura mediterranea dal fast-food americano: l’assunzione del cibo è da noi storicamente un rituale sociale, ovvero una normale abitudine a stare assieme, occasione in cui il “cosa” mangiare diventa davvero secondario rispetto alla relazione tra le persone. Ma con un’importante precisazione: il cosa mangiare è sempre strumentale alla relazione stessa, per cui il cibo non può mai essere di mediocre qualità. E’ tra l’altro dai tempi antichi che noi italiani intese, contratti, affari di Stato, matrimoni ed interscambi economici li concludiamo a tavola: forse anche con la complicità di un buon vino (con lo scopo di abbattere ogni resistenza psicologica), è la bontà del cibo che ci spiana la strada per la sempre ricercata armonia sociale. Da noi non si mangia mai da soli, anzi il farlo porta con sè sempre significati negativi e di riprovazione sociale. Anche quando ognuno porta con sè un pasto frugale (come per la pausa-lavoro o la sosta durante una gita) è norma mettere il cibo in comune, proprio perché la sua consumazione non può che essere strumentale al clima relazionale. Non c’è maggior offesa che mangiar da soli in presenza di altri: forse fatto normale nelle culture del fast-food, di sicuro un peccato mortale nel nostro Paese.

Se tutto ciò ci deriva dal nostro recente passato di contadini, è negli ultimi decenni che sono saltati questi riferimenti fondanti per il nostro “buon vivere”. Oggi è forte la tendenza a mangiare da soli, a non cucinare, ad acquisire stili di consumo imposti dalle multinazionali, ad accontentarci di gusti industriali e a dimenticare gli “odori” del cibo stesso. A ciò si aggiunge l’incapacità a fare una spesa alimentare salutista e pure il grave fatto educativo di aver disimparato a cucinare. Conseguenza: famiglie in crisi, coppie in crisi, comunità in crisi, un’intera nazione in crisi.

Per uscire da questa crisi – che è culturale – bisogna non solo fare cultura, ma avviare – lo dico agli assistenti sociali – tutta una serie di iniziative in cui, prima di tutto, dobbiamo cominciare da noi stessi. Infatti non possiamo perseguire un benessere (alimentare) se noi stessi, nel quotidiano, non sappiamo esso cosa sia. L’argomento è vasto e complesso, cerco ora di dare delle idee per una “buona pratica di aiuto” con la certezza di non essere esaustivo, ma con la speranza di solleticare le curiosità e le voglie metodologiche riguardo a prassi alternative.

Sappiamo fotografare il rapporto tra cliente e cibo. L’occasione-principe è la visita domiciliare: apriamo il frigorifero e la dispensa per capire se e come l’interlocutore si alimenta. Una cattiva alimentazione è un indicatore importante di malessere, condiviso questo dato è da lì che può scaturire un contratto sociale.

Sappiamo sostenere la competenza culinaria. Specie per gli stranieri, ma anche per gli italiani, cucinare è un aspetto fondante della genitorialità. Restituire un “valore” al genitore che cucina (anche cibi del paese d’origine) tramite i complimenti significa rafforzare un importante pilastro educativo.

Sappiamo fotografare i significati sociali del rapporto col cibo. Osservare se e come un genitore alimenta i propri figli è un ambito importante per fotografare le capacità genitoriali. Dall’allattamento al seno fino al pranzo assieme, essere presenti a questi momenti significa capire come funziona un genitore.

Offriamo delle occasioni culinarie al lavoro di gruppo. Se un gruppo funziona, se un team è affiatato, ciò lo si capisce solo all’opera. Va bene fare supervisione di gruppo – che è un’operazione “cerebrale” – , ma la vera cartina al tornasole è la verifica delle emozioni e delle comunicazioni in un ambito “extra-cerebrale”: basta farli cucinare e mangiare assieme per comprendere e migliorare una dinamica di gruppo.

Sappiamo creare esperienze di auto-aiuto tramite il cibo. Spesso non basta il pacco-viveri della Caritas o il contributo del Comune: occorre mettere in comune competenze e deficienze dei singoli per fare in modo che ognuno impari dall’altro strategie valide per un corretto rapporto col cibo. Fare la spesa? Riciclare i resti? Cucinare più sano? Tutto ciò non lo si impara sui libri, ma stando assieme!

Organizziamo dei mini-corsi di cucina per bambini e adolescenti. Se il vero problema è che oggi i minorenni non vengono più educati alla buona cucina, ciò non significa che non si possa far nulla. Imparare a fare una torta di compleanno, imparare ad organizzare il buffet di una festa, imparare a “fare colpo sul partner cucinando” sono tutti temi che vanno offerti ai giovani bisognosi di imparare “come si fa”. Se la famiglia non è educante, è importante che arrivi dall’esterno una proposta.

Rieduchiamo alla produzione del cibo. Dare al bambino la brioche “incellophananata” o un panino appena fatto, oppure preparare un piatto di pasta con ingredienti freschi o riscaldare un piatto surgelato non sono la stessa cosa. “Dare compiti” significa far sperimentare le competenze culinarie secondo modalità più umane e a tempi più lenti.

Connettiamo la competenza culinaria al progetto di vita. Sia nel campo geriatrico, sia in quello strettamente psichiatrico, il progetto di vita è sempre più connesso a sfere di gradimento su settori a fragile competenza. Far mettere in gioco un cliente debole attraverso il compito del cucinare significa misurarlo in pratica sul proprio miglioramento. Posto l’obiettivo e l’indicatore, occorre solo dare il compito e misurarne l’efficacia.

Ugo Albano