Ed eccoci qui all’ultimo lunedì del mese ed all’ultimo contributo sul tema “crescere” !

Questa settimana ospitiamo una collega, un’Operatrice Socio Sanitaria, un’amica, una tradizionalista rivoluzionaria , una concreta sognatrice, pronta a mettere sempre in discussione le proprie scelte e pertanto sempre pronta ad evolvere ed a crescere… all’infinito: Desirée D’Amico !

Volete che una persona così non sappia presentarsi da sè ?!

Eccola, infatti,  la sua presentazione e il suo prezioso contributo sul tema della crescita

estrapolato dalla sua tesina finale del Corso OSS !!!

Buona lettura a tutti voi e Grazie Desy !!!!


 MI PRESENTO

Eccomi qui, a scrivere di questo percorso, inaspettato, ma voluto e pensato da tempo! Scoprirete, soltanto seguendomi fino alla fine e rileggendo il mio percorso, perché secondo me ha a che vedere con la crescita, la scoperta , le conferme e …le sorprese  e mi ha fatto decidere di rispondere alla chiamata alla scrittura di Giulia e Cristina!

Sono Desirée D’Amico, ho quasi 31 anni e sono laureata in servizio sociale.
In molti mi hanno chiesto il perché io abbia deciso di intraprendere il percorso formativo per diventare OSS anche se già in possesso di una laurea e come sempre risponderò e vi spiegherò il perché.

Da 10 anni lavoro nel “mondo” del sociale e questa lunga esperienza più il mio percorso universitario e personale mi hanno permesso di incontrare diverse figure professionali, mettermi a confronto con esse, osservare, recepirne i pro e i contro di una determinata professione.
Disillusa dalle aspettative alle quali il mio percorso di studi auspicava, scontrandomi con la realtà, riconoscendo e riconoscendomi intransigente nei confronti di una burocrazia e di uno Stato che impongono e limitano l’autonomia dei servizi sociali mi sono allontanata sempre di più da quel ruolo, mantenendo però dentro di me tutte le conoscenze e le metodologie acquisite.
Così ho lavorato sempre più a contatto con le persone e il loro disagio, quello vero, quello di “strada”, quello dei bambini del Venezuela, quello dei senza fissa dimora di Torino, quello degli psichiatrici e dei disabili, conoscendo e scoprendo in me un bisogno: quello di lavorare con la persona, non solo per la persona. Esserne il primo aggancio, essere chi per prima si accorgesse dei suoi bisogni e delle sue necessità.
L’Operatore Socio Sanitario è questo, è quella figura professionale più vicina alla persona, quella che grazie alla relazione d’aiuto e alla collaborazione con le altre figure professionali redige un progetto personalizzato per rispondere non solo ai bisogni, ma per mantenere l’autonomia, per riscoprire delle risorse sopite, per eliminare le barriere sia architettoniche che mentali, quella che dà e riceve ogni giorno dal contatto umano che si viene a creare con ogni gesto ed ogni parola: io ho bisogno di questo e nel momento stesso in cui ne ho preso consapevolezza ho deciso di essere qui e raccontarvi il mio percorso, con i suoi alti e i suoi bassi, con i dubbi, con gli scontri interni con i miei ideali, con le mie conoscenze, con l’essere penalizzata perché non ci si aspetta sempre il massimo dagli operatori sociali.
IO voglio far la differenza e ho incontrato tantissime persone che la differenza la fanno e continueranno a farla, per rendere la nostra categoria professionale sempre più riconosciuta e per essere orgogliosi di far parte, noi stessi, dei bisogni della comunità.

 

 

 

 

IL PROFILO PROFESSIONALE DELL’OPERATORE SOCIO SANITARIO
La figura dell’OSS nasce nel 2001 da una figura già esistente per esigenze e spinte sociali che creano nuovi bisogni nella popolazione (il femminismo e la partecipazione attiva alla vita sociale delle donne; la sofferenza psichica, l’emarginazione e la disabilità; l’immigrazione; l’allungamento della vecchiaia e i derivanti bisogni dell’anziano).
Prima del Decreto del 18 febbraio 2000 e del suo recepimento a livello regionale con D.G.R. N 46-5662 DEL 25-03-2002 esistevano le figure dell’OTA (Operatore Tecnico Addetto all’Assistenza) a livello sanitario e dell’ADEST (Assistente Domiciliare e dei Servizi Tutelari) a livello sociale: ora la figura è unica e risponde sia ai bisogni sanitari che a quelli sociali, riconoscendo la GLOBALITÁ DELLA PERSONA:  “arginare ogni separazione e distinzione che rendessero la persona un essere disumanizzato di un corpo organico, meccanico, fatto di leve, di ossa e di forze muscolari. Una diversa concezione dell’uomo, ne ha riconosciuto la globalità, sintesi della corporeità, dell’intelligenza e dell’affettività. La globalità e la totalità della persona in rapporto e nel confronto con l’ambiente, si intrecciano in un costante dinamismo inteso a favorire uno sviluppo armonico e a potenziare le abilità per un costante rinnovamento e adeguamento alla vita.”
Grazie a questa nuova visione si è capito che i bisogni sanitari e quelli sociali non possono essere dipendenti e scissi completamente e che quindi l’operatore che si occupa della persona deve avere sia una formazione sanitaria che una sociale: l’OSS quindi non va a sostituire le figure precedenti, ma ne assorbe parte di competenze e compiti e sviluppa un percorso di complementarietà partendo proprio dalla ricomposizione del profilo e della sua evoluzione.
Da specifica formazione professionale l’OSS svolge attività indirizzate a:
• Soddisfare i bisogni primari della persona, nell’ambito delle proprie aree di competenza, in un contesto sia sociale che sanitario;
• Favorire il benessere e l’autonomia della persona;
• Rispettare le autonomie presenti lasciando, invogliando la persona assistita a fare autonomamente;
• Fornisce aiuto affinché la persona possa usare le autonomie residue;
• Si sostituisce alla persona assistita, quando questa è assolutamente impossibilitata ad agire in modo autonomo.
L’OSS opera per competenze tecniche, relazionali e relative alle conoscenze richieste e le attività sono rivolte alla persona e al suo ambiente di vita: assistenza diretta ed aiuto domestico alberghiero; intervento igienico-sanitario e di carattere sociale; supporto gestionale, organizzativo e formativo.
È un operatore che sa lavorare in équipe, sia in ambito sanitario che sociale, e collaborare con le diverse figure professionali che ne fanno parte: infermieri, assistenti sociali, educatori, animatori, fisioterapisti, ecc.
Oltre che lavorare in autonomia (quando agisce secondo le proprie competenze e per attività programmate nel piano di assistenza: intervento mono-professionale), l’OSS può lavorare in cooperazione (quando aiuta un professionista, di altro profilo, nell’espletamento di un intervento che richiede una figura diversa: intervento pluri-professionale) e su prescrizione (quando svolge un’attività eseguibile solo su precisa attribuzione dell’infermiera o altro profilo e con la sua supervisione).
In ambito sociale incontriamo l’OSS presso:
• Assistenza domiciliare;
• RSA (residenze sanitarie assistenziali) considerabili anche in ambito sanitario per i casi ad alta intensità assistenziale;
• CAD (centro aggregazione disabili);
• CADD (centro addestramento disabili diurno);
• RAF (residenze assistenziali flessibili).
In ambito sanitario:
• Ospedale;
• Ambulatori;
• ADI (Assistenza domiciliare integrata).
Si deduce quindi che l’OSS opera con diverse tipologie di utenza: minori, adulti in difficoltà, anziani e disabili.
Grazie al percorso formativo e ad i suoi diversi tirocini mi è stato possibile confrontarmi con tutte queste aree di competenza e gli ambiti in cui la figura si spende.
LA FORMAZIONE

L’offerta formativa proposta per il corso “Operatore Socio Sanitario 2017/2018” spazia tra le aree:
• Socioculturale, istituzionale, legislativa (70 ore);
• Socioculturale, istituzionale, legislativa: pari opportunità (10 ore);
• Area psicologico sociale (80 ore);
• Area igienico sanitaria (130 ore);
• Sicurezza (16 ore);
• Area tecnico operativa domiciliare (50 ore);
• Area tecnico operativa residenziale (75 ore);
• Tecnologia informatica (30 ore);
• Stage (440 ore);
• Prove di valutazione (15 ore).
I docenti che seguono il corso e che accompagnano lo studente anche nelle fasi di rielaborazione di stage (momenti di confronto intermedi in aula) sono tutti professionisti che lavorano nel campo sociosanitario: medici, infermieri, assistenti sociali, psicologhe, medici specialisti (geriatri), animatori, ecc. Ciò permette, oltre all’acquisizione delle conoscenze specifiche, un confronto diretto con la realtà e con le figure professionali con le quali l’OSS collabora quotidianamente.
L’Ente di formazione per i periodi di stage propone:
• Ospedale;
• RSA disabili;
• RSA anziani;
• Assistenza domiciliare sul territorio.
Lo stage, previsto nel percorso formativo da D.G.R. N 46-5662, è un momento fondamentale per prender consapevolezza di cosa sia e cosa comporti “prendersi cura” delle persone in un’ottica relazionale e non meramente assistenziale. Il coinvolgimento emotivo, la giusta distanza, la professionalità, il minutaggio…tutte questioni che durante questo periodo vengono vissute, affrontate e anche messe in discussione.
Personalmente, anche se con molti anni di esperienza lavorativa, non è stato sempre semplice rimanere nel ruolo di tirocinante, sospendere il giudizio, comparare la teoria acquisita con la pratica senza criticità; ciò però mi ha permesso di conoscere tutte le realtà dove l’OSS si può spendere e decidere dove meglio mi vedo e dove mi sento più adeguata per non andar contro i miei ideali, mantenere il mio grado di autonomia e di scelta e la tipologia di utenze con la quale meglio mi relazioni.

 

LA MIA ESPERIENZA DI TIROCINIO PRESSO UNA RSA. “non so cosa si deve fare ma so cosa non si deve fare”

 

Dopo tanti anni mi ritrovo di nuovo nel ruolo di tirocinante e non di lavoratrice e specialmente nella veste di OSS e non di assistente sociale. Inoltre è la prima esperienza di lavoro con gli anziani quindi l’arrivo in struttura è carico di ansia, perplessità, ma specialmente di mesi di formazione e di pura teoria.
Tutto ciò i primi giorni ha pesato molto sul mio senso critico e guardandomi intorno trovavo solo discordanze con tutto ciò che in sede di formazione ci era stato trasmesso.
Non è stato facile il confrontarmi e l’esporre tali perplessità alle operatrici e alla direzione presente in RSA, abituati ai ritmi della struttura, abituati a relazionarsi con gli ospiti in un determinato modo e sopraffatti il più delle volte da un burn-out tipico dei lavori sociali.
Teoria e pratica non trovavano un punto di incontro: mobilizzazioni sbagliate, igieni sommarie e non adeguate, prevenzioni assenti, richieste non ascoltate…
La mia parte sociale ha prevalso il più delle volte in tali situazioni e non ho accettato di eseguire determinate manovre, ad esempio, di mobilizzazione (sia per tutelare me stessa che gli ospiti) ed ho cercato il più delle volte di far presente che determinati comportamenti avrebbero portato gradualmente alla perdita residua delle autonomie degli ospiti.
L’equilibrio tra il ruolo di tirocinante, e quindi di OSS in formazione, e la mia preparazione sociale, e quindi l’importanza che do alla relazione umana e all’autodeterminazione della persona, non è stato possibile trovarlo e i primi tempi ciò non mi ha fatto vivere per niente bene con me stessa.
È stato molto utile il confronto avuto durante i momenti di rielaborazione in aula sia con i miei compagni sia con i docenti.
Dopo l’impatto ho cercato le vere ragioni per cui penso alcune strutture per anziani non riescano il più delle volte a rendere dignitosa la vita dei propri ospiti e come per ogni comparto sociale e sanitario la colpa è da ricercare nelle politiche sociali. Queste, create maggiormente da tecnici e non da operatori che lavorano sul campo, non riescono a pieno a considerare la persona come tale e l’imposizione di tempi, costi e modalità disumanizza l’intervento e invece di tutelare la persona la rende vittima del sistema.
Nel caso delle RSA il minutaggio, a parer mio, non può considerare la moltitudine di bisogni e necessità della persona e delle mille variabili che possono sussistere; inoltre le cooperative sociali imposto loro il minimo da garantire non investono soldi propri per aumentare il livello di prestazioni che si possono offrire.
Nel complesso, comunque, dopo tutte le criticità e difficoltà, da tirocinante ho avuto il tempo di dare maggior attenzione alla relazione con gli ospiti dandone forse un sollievo temporaneo (creando forse anche del danno visto che nei momenti e nei periodi di assenza di tirocinanti torneranno a contare solo sulla presenza di un operatore che cercherà il più possibile di soddisfare tutti i bisogni primari tralasciandone quelli relazionali).
Ho voluto prendermi questi spazi di autonomia per non andar contro me stesa e ciò mi ha penalizzato a livello di valutazione, ma sinceramente non credo di poter lavorare in strutture che per colpa del minutaggio non riescano a rendere dignitosa il fine vita delle persone.
Utile sarebbe l’ingesso di operatori sociali, e quindi di OSS, nelle commissioni che si occupano di politiche sociali per creare realmente un welfare state che prenda in considerazione la persona nella sua totalità.

 

 

LA MIA ESPERIENZA DI TIROCINIO PRESSO IL PRONTO SOCCORSO E IL DEA (Dipartimento di Emergenza e Accettazione)
“Il DEA rappresenta un’aggregazione funzionale di unità operative che mantengono la propria autonomia e responsabilità clinico-assistenziale, ma che riconoscono la propria interdipendenza adottando un comune codice di comportamento assistenziale, al fine di assicurare, in collegamento con le strutture operanti sul territorio, una risposta rapida e completa”.
“È la struttura di accettazione e trattamento iniziale di tutti i casi di emergenza-urgenza.
Attivo 24 ore su 24, presta cure immediate alle persone in condizioni critiche, eroga prestazioni urgenti che non possono essere fornite da altri operatori (medici di famiglia, pediatri di libera scelta, ambulatori specialistici) e comunque non rinviabili, stabilisce l’eventuale ricovero della persona”.
È suddiviso in:
• Triage: punto di accesso delle persone in stato di sofferenza, valutazione dei sintomi e assegnazione di un colore in base alla gravità della situazione (presenza di 1 infermiere o di 1 OSS per l’accesso più 1 infermiere per rilevazione sintomi);
• Area funzionale rosso/gialla ed Area funzionale bianca/verde: qui viene valutata la situazione delle persone assistite e fornita la prima assistenza. Presenza di 1-2 infermieri, 1 OSS e 1 medico in ciascuna stanza. L’OSS qui ha il compito della rilevazione parametri, della svestizione della persona, di coadiuvare l’infermiere e di occuparsi dei bisogni primari della persona;
• Area funzionale chirurgica: (chirurgo più infermiere ed OSS all’occorrenza);
• Area funzionale ortopedica: (ortopedico più infermiere ed OSS all’occorrenza);
• Area funzionale pediatrica: (pediatra più infermiere ed OSS all’occorrenza);
• OBI (osservazione breve intensiva, 10-12 posti): in questa sala si permane per un massimo di 72 ore in osservazione e in attesa di dimissione, trasferimento in OCI (*) o trasferimento in unità operativa (presenza di medico, OSS e infermiere);
• *OCI (osservazione clinica intensiva, 10-12 posti): in questa sala, dove ho trascorso la maggior parte del mio periodo di stage, le persone vengono osservate e assistite in attesa per lo più di trasferimento in adatta unità operativa, ma può anche succedere che vengano dimesse. Qui l’OSS e l’infermiere lavorano in stretta collaborazione sia per la somministrazione della terapia, sia per l’assistenza primaria della persona (igiene, alimentazione, ecc..). L’OSS in particolare si occupa di tutta la parte legata all’assistenza e accompagna la persona ad eventuali visite.
Inoltre, in orario visite, ha contatti con i parenti e in questi momenti è forte il lato relazionale e sociale che un operatore socio-sanitario deve acquisire e far proprio.
In OCI la mattinata (mio unico turno) inizia con il cambio turno degli infermieri (di notte non è presente l’OSS) e con la consegna e il passaggio casi. Segue la rilevazione dei parametri, la somministrazione terapia, dalle 8 alle 9 in orario visita viene portata la colazione e aiutato chi ha necessità e/o non ha persone vicine che la possano aiutare.
A termine orario visita si inizia il giro letti (barelle) con l’igiene e il cambio completo lenzuola: si lavora sempre in due (OSS più infermiere) o con la collaborazione della persona se è in grado di alzarsi o di una discreta autonomia. In questi momenti si osserva la cute della persona, eventuali tracce nelle urine o nelle feci, mucose, ecc.; si eseguono medicazioni e si cambiano le precedenti (piaghe da decubito, abrasioni, ecc..).
Terminato questo momento c’è molto spazio per la relazione con le persone assistite (sempre se non si viene chiamati fuori per emergenze o per bisogni) ed è il momento che ho sempre preferito in cui realmente ho potuto conoscere le persone e dedicarne un tempo personalizzato.
Dopo il pranzo (che vede la presenza anche di volontari) e l’orario di visita, si ritorna al giro letti e al cambio turno con consegna.
In media le persone rimangono almeno due giorni in questa unità operativa e ritornare il mattino seguente, vederne i miglioramenti o i peggioramenti, mi ha permesso di seguirne un pezzo di storia clinica; dopo il loro trasferimento non ho potuto più seguirne l’evoluzione, anche perché mi sarebbe stato difficile visto il numero elevato di passaggi ogni giorno.
Trascorrere il tirocinio in DEA mi ha permesso di avere una visione a 360° del lavoro dell’OSS in ambito ospedaliero avendo contatto, anzi il primo contatto, con differenti patologie e differenti gradi di bisogno. Ho imparato tantissime tecniche sia di assistenza sia infermieristiche: la collaborazione tra OSS e Infermiere è incredibilmente funzionale e non viene assolutamente percepita nessun tipo di gerarchia, ma le due figure si complementano. Ciò mi ha reso le giornate serene e stimolanti. Penso che in media durante un turno vedessi 100 persone assistite, una cinquantina di operatori e un centinaio di parenti: ciò ha avuto un forte carico emotivo e un assorbimento completo di energie. Ho cercato di combattere “l’esaurimento energetico” trovandomi degli spazi di solitudine e di rielaborazione in cui riempivo un po’ le mie sacche energetiche. Devo ammettere che relazionarsi con tante persone durante un turno non mi dava spazio ne voglia nella vita privata di vedere altre persone ed ho preferito trascorrere in solitaria il mio tempo fuori dall’ospedale. Se devo fare un’analisi di me stessa credo io debba lavorare molto sulla mia eccessiva empatia che mi rende una spugna per le emozioni e le sofferenze altrui; risulterebbe pericoloso per me lavorare in un ambito ospedaliero dove tutte le persone che si incontrano vivono un momento, temporaneo o definitivo, di sofferenza. Penso che al momento io non sia pronta a lavorare in un ambiente del genere, troppo esposta ad un burn-out precoce: devo lavorare molto sul distacco emotivo e sulla giusta distanza perché, se è vero che nel momento del servizio risulto professionale e con giusto approccio, ne risento molto a livello personale e privato risultando nervosa e facendo fatica a distaccarmi dalla realtà lavorativa.
Grazie a questa esperienza ho conosciuto dei miei limiti, alcuni superati altri da affrontare strada facendo.

 

LA MIA ESPERIENZA DI TIROCINIO PRESSO IL SERVIZIO PSICHIATRICO DIAGNOSI E CURA (SPDC)

Gli ultimi tre giorni di tirocinio li ho trascorsi nell’unità operativa psichiatrica di diagnosi e cura: un regalo per me,  tanto interessata all’ambito psichiatrico e in procinto di iniziare un’esperienza lavorativa a contatto con questo tipo di utenza, dove l’OSS svolge principalmente un lavoro relazionale.
L’SPDC provvede alla cura dei pazienti che necessitano di trattamenti medici con ricovero in ambiente ospedaliero; accoglie trattamenti volontari o obbligatori, provvede all’assistenza di pazienti in condizioni di emergenza ed è collegato al Pronto Soccorso. L’accesso avviene per invio da parte dei Centri di Salute Mentale (CSM), dei medici di medicina generale, dalla guardia medica o per accesso diretto dal Pronto Soccorso.
La struttura presente nel Presidio Ospedaliero conta 4/5 posti letto, la presenza di Infermieri, OSS e uno psichiatra, e nel momento del mio passaggio sono presenti 5 donne: 5 storie che si uniscono.
In questo piccolo spazio, abbastanza vecchio, in attesa di un rinnovo e di un trasferimento da anni, il tempo ha un altro ritmo, lo spazio ha un’altra misura.
Sono stati 3 giorni di racconti e di socialità con le 5 donne che per diversi motivi si trovavano momentaneamente a vivere lì: U. l’ex infermiera che dopo anni di soprusi decide di reagire e aggredire il marito; S. che stanca dalla vita ingerisce candeggina (avevo visto il suo passaggio in Pronto Soccorso); V. l’OSS affetta da schizofrenia paranoide; G. depressa cronica; B. dimessa il giorno dopo il mio arrivo, direzione comunità terapeutica.
Tra loro e tra loro e gli operatori c’è un rapporto estremo di fiducia e dialogo; sono tutte consapevoli di aver bisogno di quello spazio e sono riconoscenti verso gli operatori che dedicano loro del tempo e si occupano dei loro bisogni.
Non si percepisce minimamente la costrizione e lo spazio limitato permette loro l’assenza da stimoli esterni per concentrarsi su quelli interni, causa del loro malessere.
È stata una bellissima esperienza sia conoscere le signore che gli operatori che lavorano in questa unità operativa.

 

LA MIA ESPERIENZA DI TIROCINIO PRESSO IL SERVIZIO CURE DOMICILIARI. Cosa significa lavorare sul territorio
Entrare a casa delle persone è come entrare nelle loro vite, nel luogo che più li rappresenta e dove ognuno si sente al sicuro e fonda le proprie radici.


L’operatore deve esser in grado, specialmente all’inizio della relazione d’aiuto, ma in tutto il percorso assistenziale, di “entrarci” ma senza invadere, in punta di piedi, osservando, ascoltando e successivamente indirizzando.
L’osservazione della casa, oltre alla conoscenza dei bisogni della persona, è molto importante e il riuscire ad entrarci in sintonia, trovando dei compromessi con l’utente, è il punto di partenza per rendere efficace l’intervento; il bisogno primario per cui viene attivata un’assistenza domiciliare è interdipendente con molti altri bisogni (sicurezza della casa, igiene ambientale, ecc..).
Nel mio percorso di tirocinio sono entrata in più di dieci case, in più di dieci vite: in alcune accolta di più, in altre meno, ma comunque sempre accettata.
La relazione che si crea tra gli utenti e gli operatori, oltre ad essere d’aiuto, e di estrema fiducia, è di riferimento per molteplici necessità ed è per questo che la conoscenza del territorio di riferimento e dei servizi offerti è fondamentale.
Anche se l’assistenza è domiciliare, la persona, necessita di un continuo collegamento con l’esterno e con la rete di servizi presenti (sanitari o sociali).
Il lavoro presso il domicilio, oltre che direttamente a favore della persona presa in carico, interessa anche i differenti soggetti, care giver, familiari che ruotano intorno alla stessa; è con queste figure che l’OSS, insieme all’equipe multidisciplinare, svolge un lavoro di educazione, oltre che di ascolto e comprensione, per poter renderle autonome nelle pratiche che possono svolgere da sole e in assenza degli operatori (le ore di SAD spesso sono poche e mirate ad alcuni interventi).
Le situazioni incontrate sono molteplici: chi ha necessità più assistenziali (igiene, medicazioni, ecc.), chi più sociali (collegamenti con il territorio, supporto nella gestione domestica, ecc.), chi più burocratiche, chi tutte insieme.
Nella pratica mi sono trovata con la mia tutor a svolgere igiene a persone allettate e terminali, ad accompagnare a visite specialistiche, a svolgere igiene ambientale, ad accompagnare e indirizzare nell’acquisto degli alimenti, a bere caffè al bar e chiacchierare, a mangiare una pizza ed essere l’unico incontro della settimana.
In tutte queste situazioni la relazione è da curare molto ed è la parte predominante negli interventi di assistenza domiciliare.
Il supporto relazionale che si da ad alcune persone è talmente importante che nulla deve esser lasciato al caso, mantenendo sempre la giusta distanza, non dimenticando mai di essere dei professionisti, ma in egual modo non dimenticandosi di aver di fronte una persona, fragile e in un momento di bisogno.
Per evitare che si crei uno stato di dipendenza da parte dell’utente bisogna lavorare sempre sulle autonomie residue della persona, stimolandole e incoraggiandole.
Personalmente è un lavoro che amo, un ambito in cui ho già lavorato e in cui continuerò a lavorare, perché ritengo importantissima la possibilità, finché sia possibile, di rimanere nei propri luoghi e con le proprie persone, grazie al supporto che la rete d’aiuto, sia formale che informale, può dare.
Il clima che si crea trova un equilibrio tra professionalità ed informalità e il dinamismo rende le giornate cariche, ma motivanti.
La quantità di caffè offerti nelle diverse case è pericolosa, ma le parole, gli guardi e i ringraziamenti da parte degli utenti e dei loro nuclei compensa tutti i “pericoli” e le fatiche.

 

 

LA MIA ESPERIENZA DI TIROCINIO CON LE PERSONE DISABILI IN RSA
La giornata inizia con il cambio turno e la consegna da parte dell’operatore notturno, la sveglia degli ospiti (con sottofondo musicale e allegria nell’aria), il bagno o la doccia, prestando particolare attenzione a chi, per patologia, può presentare piaghe, arrossamenti, irritazioni (uno dei maggiori fattori di rischio delle piaghe da pressione è l’ipomobilità dovuta da lesioni del SNC E SNP, ecc..).
Successivamente c’è la somministrazione della colazione ed il passaggio infermieristico per la somministrazione delle terapie; quasi tutti gli ospiti vengono imboccati facendo particolare attenzione alle indicazioni alimentari, quali la consistenza degli alimenti ed eventuali diete particolari. Nel nucleo dove ho svolto il mio periodo di tirocinio non c’erano persone alimentate da PEG (gastrostomia endoscopica percutanea), ma in altri nuclei sì quindi l’operatore deve occuparsi insieme all’infermiere della sua gestione.
La mattinata vede il coinvolgimento di ognuno in attività differenti seguendo il piano settimanale delle attività previste per ognuno nel proprio PEI (Piano Educativo Individualizzato): psicomotricità, fisioterapia, gite esterne, passeggiate, vasca a farfalla, ecc.
Ho avuto il piacere di assistere ad un progetto che coinvolgeva sia gli ospiti che alcuni operatori: la danza delle carrozzine che creava un momento di ilarità e di sinergia.
Il clima che i respira in struttura è familiare ed ogni nucleo è come fosse una famiglia inserita in una grande comunità che è l’intera RSA: molti degli ospiti vivono lì da molti anni e vi sono cresciuti e la loro casa è rappresentata da questo luogo.
Vivere due settimane di tirocinio mi ha permesso di entrare, anche se momentaneamente, in questa grande famiglia: è molto importante sospendere il giudizio e allontanare i propri pregiudizi/stereotipi sulla disabilità rinunciando alla pietà e alla compassione.
La persona disabile non deve essere considerata solo in base alle sue limitazioni e concentrandosi su queste nel lavoro con essa, ma pensarla come una PERSONA, nata o cresciuta con la sua limitazione fisica o psichica, con la quale ha imparato a conviverci e con la quale si può convivere nella nostra società eliminando tutte le barriere sia quelle architettoniche che quelle sociali e mentali.

 

INCONTRI FANTASTICI

F. ED IL SUO COMPLEANNO
Arrivo come ogni mattina in servizio e come da abitudine faccio il giro dei letti, leggo i nomi sulle barelle, saluto chi è sveglio regalando un sorriso e mi informo su cosa li porta in pronto soccorso.
Quella mattina F. mi guarda e mi sorride chiedendomi di alzargli leggermente lo schienale della barella e un bicchiere di acqua che sorseggia tramite una cannuccia.
Dopo il solito svolgimento della mattinata ho il tempo per un po’ di chiacchiere e F. che mi aveva colpito per il suo sorriso attira la mia attenzione e passo con lui mezz’oretta.
Mi racconta dei suoi prossimi 90 anni, della sua carriera da carabiniere, di quando visse sotto scorta per 10 anni e ogni tanto il tempo viene scandito dal monitor che suona più forte per il suo cuore che accelera ricordando i tempi della gioventù e le sue avventure lavorative.
Il giorno dopo F. è ancora in pronto soccorso, ma sa già che nel pomeriggio verrà trasferito nell’unità di medicina; “il 18 maggio passi a trovarmi che compio 90 anni…spero di arrivarci!”.
Arriva il 18 maggio e il primo pensiero del mattino è il compleanno di F. e le sue parole; arrivo in pronto passando la giornata aspettando di poter salire in unità. Finito il turno, invece di correre a cambiarmi, attraverso corridoi, scale e ascensori e rivedo F.: sta dormendo, piano piano lo chiamo, apre gli occhi e gli si apre il sorriso che tanto mi aveva colpita.
“Auguri signor F. ha visto che i 90 sono arrivati!?”
“Ciao cara, grazie mille”.
Mi bacia la mano ed esco rispondendo al suo sorriso con il mio.

 

UN BRUTTO SPAVENTO
” Desirèe puoi venire un attimo?”.
Il mio primo pensiero è stato “ci sarà qualcuno da cambiare o qualche trasporto da fare”. L’infermiere mi apre la porta della sala chirurgica e lì per la prima volta un brivido mi corre dalla punta dei piedi alla punta dei capelli: mia madre su una di quelle barelle che molto probabilmente avevo preparato poco prima.
Un giramento di testa, un soffio al cuore, conto nella mia testa fino a cinque e torno al mio ruolo di Oss ed esco da quello di figlia. Decido di uscire e lasciare mia madre in quella sala e tornare al mio lavoro distaccandomi da quella situazione, pensando che come figlia sarei stata in sala d’attesa aspettando la voce che arriva dagli altoparlanti.
Posizionata nei corridoi in attesa del risultato delle analisi, ogni tanto passando osservavo e chiedevo come stesse rimanendo nel mio ruolo di Oss; finisco il turno ed esco tornando al mio ruolo di figlia, in attesa.
Due ruoli in contrasto e che hanno cercato un equilibrio in una delle giornate più cariche di pressione del mio tirocinio.

 

LASCIARSI ANDARE
Una mattina come altre, solita routine tra la consegna infermieristica, la rilevazione dei parametri delle persone assistite, le colazioni; il tutto aveva un sottofondo di dolore, un rantolio continuo e un affaticamento alla vita.
Era G., collegata a mille cavi come se fossero il suo ultimo collegamento con questa vita. Iniziamo il giro letti e igiene e arriviamo al suo letto; la signora G. era obesa e incosciente e chiediamo l’aiuto ad altri colleghi per poterla lavare e cambiare le lenzuola.
L’infermiera ci avvisa “ragazzi, non credo ce la farà”.
Io ero sul lato destro, le tenevo la testa, la spalla e il braccio appoggiato su di me era completamente abbandonato. Sistemiamo la signora e la sua barella e appoggiamo la sua testa sulla federa pulita; un rantolo…l’ultimo…e G. si lascia andare e abbandona questa stanza.
I colleghi di fianco a me iniziano ad affaccendarsi in azioni a me confuse e sconosciute, inizio a sentire le voci lontane e gli occhi riempirsi di lacrime: il mio primo decesso, la mia prima esperienza con la morte. Necessito di allontanarmi un attimo, di prendere aria, di uscire da quella stanza. Trattengo le lacrime a stento e chiedo di uscire, ma vengo seguita da un collega che mi porta fuori; non ricordo la strada, vedevo solo le pareti che cambiavano colore, curve e poi l’aria, e poi lo sfogo!

Ritorniamo dentro, respiro e torno dalla signora G.. Il mio collega OSS mi chiede se me la sento di continuare l’iter e di vedere cosa il nostro profilo è tenuto a fare in caso di decesso. Accetto: togliamo tutti i cavi che tenevano alla vita la signora G. e la portiamo in una stanza collegata a un monitor attendendo che i parenti rispondano alle diverse chiamate partite dal reparto.
Finisco il mio turno, torno a casa, prendo il mio cane e inizio a correre e a piangere per poi tornare serena e pronta per un nuovo giorno in pronto soccorso.

 

IL POST PRANZO
Sto tornando dal pranzo, le solite corse: 30 minuti per mangiare, fumare una sigaretta ed elaborare le ore precedenti di servizio.
Entro dalle porte del DEA e vedo una collega tamponare la testa di un ragazzo; le chiedo subito se vuole il cambio e con un sorriso accetta volentieri. Entriamo nella sala chirurgica e la collega mi chiede se voglio rimanere lì per vedere qualcosa di nuovo: ovviamente accetto volentieri senza sapere cosa in realtà io stessi tamponando.
Si avvicina il chirurgo e l’infermiera e “tac” tolto il cotone inizia a scorrere il sangue da quei 3 tagli procurati da un incidente stradale.
Primo capogiro, 3 respiri.
Il chirurgo buca con l’anestesia quella pelle che sotto le sue mani sembra seta e inizia a cucire mentre io tampono e l’infermiera taglia il filo ogni 2/3 punti.
Secondo capogiro, 3 respiri, risate di supporto dal medico e l’infermiera e anche dal ragazzo che si accorge del mio momentaneo disagio.
Supero il momento, continuo a tamponare, tampono anche le mie emozioni e finisco il mio lavoro pulendo il viso del ragazzo dal sangue colatogli in volto.

 

GAMBA NON GAMBA
T. è l’ultimo del giro letti del mattino quel giorno: completamente immobile assorbito da quella barella, magro, lungo e dolorante. Leggo che ha alcune piaghe da decubito sulla schiena ed eseguiamo la sua igiene e il suo cambio lenzuola con estrema calma e delicatezza nei movimenti.
Cambiato e pulito arriviamo ad una medicazione sulla gamba che necessita un cambio ignare di cosa ci sia sotto.
Srotolati i metri di garza allo zinco che vaporizzano nell’aria molecole bianche troviamo ciò che rimane della gamba di T.: il tendine a vista vibra come una corda di violino, la poca pelle che c’è ormai ha il color carbone, liquidi di color arcobaleno tutto intorno. È una piaga da decubito ormai all’ultimo stadio protratta da anni e, dopo il consulto chirurgico, capiamo che non c’è più soluzione se non quella di eliminare quella parte del corpo che ormai non appartiene più al signor T.
Con l’infermiera eseguiamo di nuovo il bendaggio dopo la pulizia accurata della ferita; consiglio al signor T. di alimentarsi per poter star meglio e per evitare la comparsa di altre piaghe visto che avevo notato che la colazione l’aveva volutamente saltata.
Ciò non accade al pranzo, ma a grande sorpresa l’indomani riesco ad aiutarlo a mangiare e inizia a prender colorito in volto. Il giorno seguente il signor T. è ancora lì, il color grigio del suo viso è quasi sparito, si è messo gli occhiali e legge la stampa riuscendo a suo modo a girarne le pagine; un movimento minimo del volto mi ricorda un sorriso di gratitudine.
La gamba l’ha dimenticata, non la sente più.

 

DOLCI RICORDI
“Mi prenda i miei dolci, sono lì in quell’armadio!”. “La mia borsa dov’è? L’ho lasciata nella mia stanza!”.
A. è spaesata e confusa, cerca le sue cose, si sveglia in pronto soccorso dopo il trasporto dalla struttura anziani in nottata dovuto ad una caduta accidentale.
Mi avvicino a lei che si dimena sulla barella cercando di togliersi quel tubicino che le permette di urinare e urla cercando di scendere per tornare nella sua stanza.
A. ha 94 anni ed è affetta da Alzheimer.
“Cerco” i suoi dolci negli armadietti dei farmaci: “qui non ci sono! Devono essere finiti!”.
Abbandonata la voglia di dolci inizia a raccontarmi ciò che si ricorda della sua vita e a raccontarlo di nuovo e di nuovo e ancora…come se la puntina del gira dischi si fosse bloccata mentre il disco continua a girare.
“Vivo con mia mamma…a forse no…forse è morta! Si si è morta!”.
Arrivano le nipoti durante l’orario di visita ed è subito festa: si torna in struttura.
A. se ne va in carrozzina per tornare a “casa” con un sacchetto di amaretti che mangia anche senza denti e ritroverà la sua borsa di dolci e pezzi di memoria della sua storia.

 

RITROVARSI
Scruto quel letto, riguardo, mi avvicino; sì è proprio lui, è proprio Q. un utente conosciuto nel mio precedente tirocinio sul territorio.
Saluti, abbracci e racconti del suo arrivo in pronto soccorso.
Q. non cambia anche se non più a casa sua, ma su una barella: malato terminale, super richiedente, super attivo, super rompiscatole come scherzosamente gli dico più volte!
Mi cerca con lo sguardo ogni 5 minuti, anche solo per farmi l’occhiolino e forse per sentirsi un po’ a casa, quella casa che per due settimane ho frequentato durante il mio tirocinio. L’indomani Q. non c’è più, è stato trasferito in unità e magari un giorno lo rincontrerò anche lì e come sempre strizzandomi l’occhio mi chiederà qualche favore ed io sbuffando lo chiamerò rompiscatole e farò quel che posso per farlo sentire un po’ a casa!

 

 

CONCLUSIONE

Adesso sì, oltre che sentirmi un OSS, lo sono davvero.

È stato un percorso di crescita, di scoperta, di conferme e di sorprese.
Ogni inizio tirocinio partiva con delle aspettative, che si modificavano, che a volte venivano deluse e che in altre venivano superate.

Ho superato molti miei limiti e molte delle mie barriere mentali, grazie ad alcune esperienze e grazie al confronto continuo in aula con i miei compagni e con i docenti.

Ho scoperto nuovi ambiti lavorativi che mi hanno affascinata e incuriosita, che mi hanno formata e che mi hanno scalfito il cuore.

Un viaggio alla scoperta di un mondo sommerso che è quello della sofferenza e del disagio umano che spesso viene emarginato, ma che è parte di noi e della comunità.

Ho incontrato operatori stanchi, operatori motivati, operatori disillusi e operatori che si sentono realmente necessari e portatori di benessere e lo fanno professionalmente, ma con quel pizzico in più dell’essere e non del solo fare.

Ho acquisito moltissime competenze, sia sanitarie che sociali, grazie alle lezioni teoriche in aula e al supporto di docenti professionisti della materia, e grazie a tutte le persone e le tutor che mi hanno accompagnata durante ogni periodo di tirocinio con la voglia di trasmettere i propri saperi, le proprie conoscenze e di formare nuovi operatori.
Ora posso dire di saper esattamente chi è l’OSS, la sua storia e le sue battaglie per rivendicare il ruolo, cosa può e cosa non può fare, con chi collabora e con chi intesse le reti di supporto per le persone.

Mi sento realmente parte di questa comunità professionale e non vedo l’ora di farne parte lavorando direttamente, continuando a far crescere il nostro ruolo, continuando a stringere sempre più forti collaborazioni con altre figure per lavorare insieme per l’insieme che è la persona considerata nella sua globalità, eliminando i residui di assistenzialismo e di individualismo che non devono più esistere e che devono essere debellati dal nostro sistema, perché il benessere del singolo è il benessere di tutti e il benessere per la nostra intera comunità.

Lavoriamo per il benessere e non per l’assenza di malattia,

perché si può star bene anche in malattia,

si può scegliere di sorridere anche quando il nostro corpo ci sta piano piano abbandonando,

quando il corso naturale della vita ci porta verso l’ignoto,

quando un familiare ha bisogno di noi,

quando un bambino e una famiglia hanno bisogno di una spinta per uscire da un momento difficile,

quando un disabile ha bisogno di integrarsi,

quando il bisogno è un bisogno condiviso

da tutti noi.