Concludiamo il mese con un dono davvero speciale!

L’autrice dell’articolo di questa settimane è Ivana Nikolic, Rom di nascita, cittadina del mondo per scelta, conosciuta da una di noi nel mondo della danza, è una professionista che ha molto ma molto da raccontare!

Nel suo articolo ci fa entrare con orgoglio nella sua storia, ci descrive un passato complesso e impegnativo, un presente ricco di intenzioni e di volontà , il futuro colmo di sogni e desideri e l’idea che l’umanità e la fratellanza possano affermarsi come valori fondamentali dell’essere umano!

Ivana si descrive come un albero di ciliegio, radicata al terreno ed alle sue origini, ma capace di raggiungere con le fronde i proprisogni,  un albero ramificato in molteplici interessi, per la danza, in difesa dei diritti umani , per l’educazione e i diritti dell’infanzia!

Ivana ci dimostra che non è necessario rinunciare alle proprie radici per affermarsi, anzi!

Grazie ancora al’insegnante di danza di una di noi e buona letura a tutti voi!

 

 

 

La casa del ciliegio

 

Il primo ricordo che posso definire davvero mio e non costruito dai racconti dei miei genitori narra la magia di una serata trascorsa nel campo nomadi: all’orizzonte lampeggiano le luci dell’aereoporto di Torino e noi siamo tutti stretti attorno ad un televisore. Ci sono donne, uomini, bambini ed anziani e lo schermo trasmette il film Disney “La Sirenetta”, il primo della mia vita.

È il 1996 ed io ho cinque anni. Sono arrivata a quel campo con i miei genitori e mio fratello Rasid, dopo una lunga avventura: la nostra storia inizia nel 1991 a Vukovar, oggi in Croazia ma allora parte della Jugoslavia. Io e la mia famiglia abitavamo lí, nelle campagne limitrofe, coltivavamo un terreno e vivevamo sereni nella “casa del ciliegio”. Cosí la ricorda ancora mia madre, quando la nostalgia la attanaglia.

In quegli anni mia madre lavorava anche al servizio di una gentile signora serba, un’insegnante di nome Jovanka che poi sarebbe diventata per noi una sorta di “fata madrina”. Fu lei infatti la prima a capire che per la mia famiglia i tempi sarebbero diventati pericolosi.

Nel 1991 la nostra patria, la Jugoslavia, inizió ad andare in mille pezzi. L’origine di tale disfacimento fu nel 1989, per noi anno di nascita di mio fratello, ma per il mondo la fine dei regimi comunisti dell’Est europeo, il che per la Jugoslavia avrebbe significato la fine dello stato socialista di Tito e la ripresa dei nazionalismi etnici tra serbi,croati, bosniaci e montenegrini, ovvero della guerra di tutti contro tutti. Noi di tale guerra eravamo parte integrante: mio padre é un rom serbo-ortodosso, mia madre una rom bosniaca-musulmana, io, nata a Novi-sad,sono serba e mio fratello, nato a Bania-luca, è bosniaco.

-Non é piú terra per voi questa- disse un giorno la signora Jovanka- se volete un futuro dovete andarvene-.

Il primo a lasciare il paese fu mio padre, il quale era un serbo refrattario alla guerra e pertanto considerato disertore, ma non ha mai raccontato come riuscí ad attraversare la Croazia, allora in guerra con la Serbia, per rifugiarsi in Germania.

Mia madre rimase a Vukovar con me e mio fratello, nascosti nelle cantine della casa della nostra fata madrina. Soltanto molti anni dopo, leggendo il diario di Anna Frank, potei capire le ore di angoscia e paura che mia mamma e la signora Jovanka dovevano aver passato.

Nel 1992 la situazione del Paese si fece insostenibile a causa della guerra tra Serbia e Bosnia Erzegovina e la conseguente guerra civile tra serbi-bosniaci e bosniaci-musulmani. La gravitá della situazione divenne tale che ormai non era piú sicuro rimanere nascosti neppure in cantina. Fu cosí che una notte di quello stesso anno mia madre, con noi bambini di uno e tre anni, si mise in viaggio su un pullman diretto in Germania, per ricongiungersi a mio padre: é sola, ha due figli piccoli, non ha soldi e solo un sacchetto con una pita e un cartoccio di latte, ma ha molto coraggio o forse molta disperazione. Non ha soldi per il biglietto, cosí consegna al conducente il passaporto col patto che le sarà restituito quando, all’arrivo in Germania, mio padre pagherá il viaggio, cosa che purtroppo non accadrà.

Gli uomini possono essere animali feroci come quelli che a Sarajevo e Sebrenica hanno collaborato a stupri etnici, violenze ed uccisioni di massa, ma possono anche essere solidali,gentili e caritatevoli, come lo furono i nostri compagni di viaggio sul pullman per la Germania.

Arrivati a …. e ritrovato mio padre, mia madre riuscí ad ottenere l’asilo politico in quanto bosniaca in fuga dalla guerra e lí ci fermammo per circa tre anni. Per lei in particolare furono anni difficili perché non aveva piú notizie della sua famiglia che viveva, o cosí sperava che fosse, in Bosnia. Tuttavia i miei genitori cercarono in ogni modo di creare attorno a me e mio fratello spazi di serenità: ci insegnavano tutto quello che sapevano, poco o tanto che fosse, giocavano con noi e ci raccontavano storie, tenendoci lontani dalle loro angosce.

Finalmente all’inizio del 1994, sempre grazie alla signora Jovanka, la mamma venne a sapere che i suoi genitori e le sue sorelle erano riusciti a fuggire dalla Bosnia e che si trovano in un campo a Torino. É qui che inizia l’ultimo capitolo della nostra avventura familiare: nel 1995 i nonni ci raggiungono in auto in Germania, decisi a portarci con loro in Italia. Nessuno ha i documenti e le frontiere da attraversare sono molteplici, ma non sarâ certo un viaggio clandestino a spaventare chi ha attraversato una guerra fratricida.

É cosí che, con mio padre e mia madre nascosti nel portabagagli e me e mio fratello sotto le ampie gonne gitane della nonna, siamo arrivati a Torino, al campo dell’aereoporto e alla magica sera in cui ho visto il primo film della mia vita.

Dopo non sono mancati i momenti difficili: abbiamo vissuto in una roulotte, abbiamo mendicato, siamo stati ospiti di case famiglia e di case di emergenza. In seguito peró i miei genitori hanno cercato e trovato un vero lavoro, abbiamo ottenuto una casa e noi figli, studiando, siamo diventati due alberi dalle radici forti e ricolmi di frutti, proprio come quel ciliegio che avevamo nel giardino di casa, a Vukovar, i cui fiori e colori hanno sempre accompagnato i ricordi della mia infanzia.

La scuola ci ha permesso non solo di crescere ma di essere, perché, come dice sempre mio padre, solo l’istruzione salva le persone dall’autodistruzione.

 

 

Io sono stata una bambina Rom fortunata, perché la mia famiglia ha sempre dato valore all’istruzione e, anche quando siamo arrivati in Italia, nonostante le condizioni sfavorevoli del campo nomadi in cui ci hanno confinato, lontano e mal collegato alla città, io e mio fratello abbiamo sempre frequentato la scuola. I miei genitori hanno avuto la forza di superare le difficoltà e le barriere, pur di garantirci la possibilità ed il diritto di istruzione. Questa importanza data alla scuola, che mi ha permesso di studiare e frequentare l’università oggi, è il risultato di una condizione, come quella della mia famiglia, di chi non aveva mai vissuto in un campo nomadi, prima dell’Italia. Infatti, il meccanismo italiano che chiude i Rom nei campi, con il tempo, crea un ghetto, all’interno del quale ci si sente protetti, mentre l’istruzione implica un confronto con il mondo esterno che discrimina e fa paura. Ciò crea un circolo vizioso che porta a un rifiuto della scuola, tanto da parte delle famiglie quanto da parte dei bambini stessi. Al contrario, la mia famiglia ha reagito a questa dinamica e fatto fronte ai pregiudizi attraverso la negazione della propria identità, perché quello sembrava l’unico modo per inserirsi nella società esterna. Nascondendo di essere Rom, io e mio fratello siamo riusciti a frequentare la scuola con i tempi e le modalità di tutti gli altri, al contrario di altri bambini che, ammettendo di essere Rom, venivano trattati come diversi, attraverso orari e programmi scolastici differenti. In questo modo, mio fratello ed io abbiamo avuto un percorso scolastico positivo, grazie prima agli stimoli dei nostri genitori e poi a quelli degli insegnanti ed educatori incontrati che ci hanno seguito, sostenuto e incoraggiato. La scuola e l’istruzione ci hanno dato gli strumenti non solo per proseguire gli studi ma anche per sviluppare e formare il nostro pensiero, spirito critico, consapevolezza ed autonomia.

Come molti autori dichiarano, tra cui Dewey, Rousseau, Montessori e, oggi, Mariani, a scuola sono importanti i contenuti, ma soprattutto la formazione della persona del bambino, che non è solo un pozzo da riempire di nozioni, ma è un uomo, di cui va sviluppato il pensiero, l’empatia, la capacità relazionale e l’interesse per ciò che apprende. Se non si forma la persona restano conoscenze aride, mentre si perde l’impegno e l’apprendimento consapevole, quello che può essere utilizzato nella vita quotidiana. Per questo è importante che il bambino, fin da piccolo, riceva stimoli, amore incondizionato ed accettazione.

Infatti la crescita di una persona dipende in gran parte dai suoi primi scambi relazionali. Se trasmettiamo a un bambino l’idea che, se fa le cose per bene, lo ameremo di più, alla fine questi capirà che il suo valore dipende dai suoi successi. Quando il bambino commette un errore, non dobbiamo sorprenderci che sia sopraffatto dalla tristezza: etichettandolo come intelligente e straordinario dopo il suo successo, dedurrà che, se non ottiene ciò che si era proposto, è perché è “uno sciocco e un mediocre”. Al contrario, deve essere sostenuto e incoraggiato, tanto davanti ai successi quanto agli insuccessi, altrimenti è impossibile costruire un’identità personale forte ed emotivamente adattata, a maggior ragione se appartenente a una minoranza etnica. I bambini Rom infatti incontrano molte difficoltà, legate al fatto di essere contemporaneamente stranieri, parte di una minoranza etnica molto stigmatizzata e legati a uno stile d vita diverso dagli altri, ovvero quello del campo. Esiste infatti una discriminazione interna alla discriminazione, tra i rom che vivono in casa e quelli in roulotte, che hanno tempi e modalità di vita quotidiana difficilmente integrabili con il resto dei bambini che frequentano la scuola.

Io, da bambina Rom, ho ricevuto sostegno, stimoli ed accettazione incondizionata a scuola, ma al prezzo di rinnegare la mia identità etnica.

Allora mi chiedo e vi chiedo: si può essere Rom ed essere integrati o per integrarsi è necessario negare di essere Rom?

Il bambino che nega di essere Rom sa che le proprie radici vengono fatte coincidere con un’immagine negativa, quella dello zingaro, a tal punto che lo stesso bambino se ne convince e la assimila. Ciò crea inquietudine, insicurezza, difficoltà relazionale e disagio perché, dentro di sé, quel bambino sa di essere sì diverso dagli altri, ma diverso con un’accezione negativa, e questo lo colloca in un limbo identitario.

Al contrario, questa diversità dovrebbe essere considerata come positiva, accettabile e soprattutto arricchente: la diversità, le radici del bambino Rom vanno nutrite affinché possa crescere e trasformarsi in un albero ricco di fiori e di frutti, perché la differenza di cui si fa portatore non è altro che una risorsa da sfruttare. Se invece, tali radici non vengono nutrite, il bambino si svilupperà in un albero che secca, più propenso al disagio e alla devianza in adolescenza e in età adulta.

Quando vivevo in Serbia avevamo un ciliegio in giardino e quando siamo arrivati in Italia, c’era un albero uguale vicino al campo. I fiori e i colori di quell’albero hanno sempre accompagnato i miei ricordi di infanzia.

Aver negato di essere Rom, mi ha permesso di crescere e diventare un albero forte e bello, eppure ancora incompleto. Soltanto oggi, che accetto e dichiaro la mia identità, mi sento come quell’albero di ciliegio, pieno di fiori e di frutti.

 

Ciò che spero è che tutti i bambini Rom non dovranno mai sentire il bisogno di nascondere o recidere le proprie radici, per poter finalmente crescere ed essere ciò che sono.