Ecco a voi il secondo articolo del mese sul tema del racconto!

Chi scrive è Ambra Torriani, già autrice per il nostro blog a dicembre 2017 sul tema della bellezza, sa bene come funziona e ci ha reso tutto molto semplice, ha scritto lei stessa la sua presentazione, ci ha donato testo ed immagini, e ci ha condotto come sempre dentro un pezzo del suo mondo!

Lasciamo a lei la parola ..

“Mi chiamo Ambra, ho 27 anni e sono laureata in Servizio Sociale.

Attualmente il caso, che non esiste, mi ha portata ad approfondire uno dei contesti maggiormente sperimentati durante i miei due tirocini formativi.

Ho infatti da poco iniziato un’esperienza lavorativa presso una Comunità minorile e mamma-bambino.

Desiderosa di proseguire sulla mia strada, sto inoltre preparandomi a sostenere l’Esame di Stato, abilitante alla professione di Assistente Sociale.

Credo nella creatività così come credo nell’arcobaleno dopo il temporale ed infatti scrivo questo mese proprio perché ho deciso di laurearmi con una tesi sulle medical humanities e sul valore attribuito alla scrittura autobiografica di racconti esperienziali nei contesti di aiuto; elaborato realizzato grazie alla collaborazione di assistenti sociali e tirocinanti.

Nella scrittura della mia dissertazione finale ho inserito, tra gli altri, anche un mio racconto autobiografico, nel quale concludo scrivendo che: ‘Per me ESSERE ASSISTENTE SOCIALE significa CREARE, avere tra le mani una tavolozza piena di colori differenti e davanti a me una tela bianca, sulla quale dipingere con mille pennelli differenti.’ “

 

 

E a voi il piacere della lettura …!!

 

 

 

 

‘Per ascoltare gli altri è necessario iniziare ad ascoltare se stessi’, scrive Campanini.

È partendo dal riconoscimento della centralità di questo assunto in ogni contesto di cura, che ho deciso di dedicarmi, nella mia Tesi di Laurea in Servizio Sociale, all’approfondimento di qualcosa di nuovo, di vero, di necessario.

La mia esperienza di tirocinio, mi aveva messo a contatto con una realtà organizzativa della quale avevo osservato e sperimentato risorse e limiti.

Gli assistenti sociali si presentavano, agli occhi del servizio ed ai miei, come ‘professionisti’ ma era evidente in loro il bisogno di essere riconosciuti anche come ‘persone’.

Giorno dopo giorno, essi erano impegnati ad ascoltare e dare voce all’altro, con l’evidente difficoltà e necessità di trovare, per se stessi, un tempo ed uno spazio dedicato dove riuscire, a loro volta, ad ascoltarsi per comprendersi e poter, così, anche comprendere.

Ho pensato ad una possibile strategia ed ho trovato nelle metodologie impiegate nei laboratori Narrativi, Esperienziali, Autobiografici, Riflessivi (NEAR), da qualche anno in fase di sperimentazione presso l’Azienda Sanitaria Locale di Biella, un interessante ponte tra teoria, pratica professionale e formazione.

Tali laboratori formativi sono indirizzati ai professionisti sanitari, socio-sanitari e del mondo socio-educativo; essi sono rivolti ai professionisti della cura in senso ampio (medici, infermieri, A.S., O.S.S., psicologi, insegnanti, educatori …).

A livello operativo l’approccio NEAR prevede il coinvolgimento nelle attività di circa quindici professionisti, un gruppo eterogeneo che viene invitato a sperimentarsi in pratiche narrative-based, mettendo in gioco la propria memoria nella condivisione di esperienze professionali, il cui valore sia stato significativo, per chi le narra.

I partecipanti devono essere accumunati da qualcosa, non per forza devono svolgere la medesima professione.

La logica che orienta le attività è ‘circolare e partecipata’, nel senso che quello che si cerca di creare è un sistema aperto, di condivisione reciproca.

Vi è così uno scambio di esperienze e di punti di vista e viene stimolata la ‘capacità di ascolto (di sé e dell’altro)’, indispensabile per il professionista che opera in contesti di aiuto.

Attraverso la scrittura si allenano infatti competenze non trasferibili, come la capacità di comprendere e di interpretare empaticamente.

Il focus non é tanto qui sull’informazione trasmessa e veicolata dal formatore, come nelle ordinarie attività di training, che rischia di appiattire l’incontro e creare distanza emotiva; quanto più sulle retroazioni dei partecipanti, sulle possibilità di cambiamento percepite, sul grande valore tras-formativo.

In questo tipo di esperienza di education si accompagna il professionista in uno spazio dialettico, che porta gli interlocutori oltre le modalità di lavoro individuali e burocratico-tecnicistiche, pur talvolta parlando delle stesse; interessandosi a come l’operatore giornalmente agisce, a quale significato attribuisce al proprio operato ed a cosa concretamente fa.

Ho così scoperto un mondo nuovo che si colloca nel contesto dell’educazione degli adulti, che sostiene e rafforza la creatività, un elemento per me fondamentale in ogni attività di cura e che si propone, come fine ultimo, quello di aiutare il professionista ad aiutare anche se stesso.

La letteratura di riferimento è quella delle medical humanities e della medicina narrativa, discipline che, come scrive Agosti  ‘hanno la finalità, […] di formarci come donne e come uomini’.

Esse aiutano ad osservare ciò che ci circonda con uno sguardo più globale, capace di cogliere maggiormente la complessità delle storie che viviamo, ascoltiamo e raccontiamo.

Per questo motivo, le esperienze formative che ne derivano sono d’aiuto all’operatore sociale non solo in quanto professionista ma in quanto persona. La loro utilità non è solo limitata alle esperienze professionali ma di vita in generale.

Tra le attività formative narrative-based sono da annoverare:

  • la lettura di storie;
  • la scrittura di storie;
  • i progetti multimediali di digital storytelling.

Tutte ciò è racconto, tutto ciò è narrazione.

Ho scelto di approfondire la scrittura di storie, in particolare quella in prima persona, la scrittura autobiografica di storie esperienziali, perché esse sono testimonianze di vita e di cambiamenti.

Ho da sempre riconosciuto l’immenso valore riflessivo della scrittura e inoltre sappiamo quale importanza essa rivesta nel contesto professionale di riferimento, quello dei servizi sociali.

L’agire professionale dell’assistente sociale si snoda nei meandri della narrazione, egli quindi per conoscere e comprendere, deve essere un esperto di relazione e di narrazione.

 

 

 

Ho così richiesto la collaborazione di cinque assistenti sociali e dieci aspiranti tali (cinque tirocinanti di primo livello e cinque di secondo).

Presupposto di partenza doveva essere la loro volontà di mettersi in gioco, a diretto contatto con se stessi e con le evoluzioni avvenute nel corso della loro esperienza professionale e formativa universitaria. Questo perché ritengo che, per un professionista, quale l’assistente sociale, definito ‘agente di cambiamento’, sia necessario prima di tutto lavorare sulla propria trasformazione, per poter poi riconoscere e sostenere quella altrui.

Ho impostato la mia indagine sociale partendo dall’invio di un mandato: un testo, trasmesso ai collaboratori dove ho riportato due input generici ed aperti, che fungessero da elementi catalizzatori ed indirizzassero il processo di scelta dei narratori, circoscrivendo ed orientando la loro memoria attorno ad uno specifico episodio vissuto.

I collaboratori hanno così dovuto rispondere a due domande:

  • Cosa significa per te essere un assistente sociale?
  • Quando hai capito cosa significasse svolgere questa professione?

Presupposto di base era che ciascun collaboratore fosse il più possibile libero di accedere al proprio universo di significati, personalmente definiti.

Chiedendo alle persone di scrivere una storia autobiografica, si chiede loro di raccontarsi, di scavare dentro se stessi e di scegliere con cura le parole adeguate a descriversi.

Si mettono in atto delle dinamiche inconsce: si attiva la memoria ed il pensiero narrativo, successivamente viene impiegata l’intelligenza autobiografica ed il racconto diventa un testo semanticamente ordinato.

La memoria, risulta così essere l’unica capace di farci assaporare il valore del tempo.

Demetrio scrive che: ‘Il pensiero autobiografico prende forma, è quasi un istinto, per tenere insieme una vita’ e aggiunge che ‘il passato si rivela il tutore e il depositario della nostra identità’.

Il racconto di sé diventa un luogo di incontro,  acquisisce un valore temporale.

Esso ci aiuta a ri-conoscerci, a creare una lieson tra chi siamo e chi eravamo, un legame tra passato e presente che diventa concreto proprio attraverso la scrittura e che sarà impresso su quel foglio, per sempre.

Mettere nero su bianco piccoli estratti della propria vita permette di ripensarli, alla luce degli anni trascorsi da quell’evento. Consente di dare forma ad un ricordo, che lungi dall’essere sbiadito ed offuscato, si scopre essere nitido, nel momento in cui si inizia a trascrivere la propria esperienza.

Il testo sarà da quel momento in avanti a disposizione, come guida all’agire; uno strumento operativo e riflessivo al pari degli altri che accompagnano il professionista nelle sue scelte.

Sarà possibile rivedere alcuni passaggi, rivalutare l’esperienza vissuta, attribuirle un sempre nuovo significato perché ‘ricordare è una conquista mentale, un apprendere da se stessi’.

Le retroazioni, scaturite da questo mio preliminare lavoro di indagine narrativa, sono state messe in luce durante un incontro dimostrativo finale, condotto dal Prof. Vincenzo Alastra in presenza della sottoscritta, al quale sono stati invitati tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del mio progetto.

Diversi sono stati i dubbi, qualcuno ha rinunciato, altri mi hanno rivolto domande in itinere e post fase di scrittura.

Condiviso è stato il valore riflessivo riconosciuto all’utilizzo di pratiche narrative-based nei contesti di cura e tanti sono stati anche gli effetti inaspettati.

Molte sono state le risonanze emotive. L’affiorare dei ricordi ha richiesto a chi ha scritto un impegno non indifferente,  che  ha portato i collaboratori ad assumersi il fastidio della riflessione, perché riflettere è un’azione tutt’altro che semplice.

Attraverso la raccolta ed analisi comparata di questi racconti è stato possibile rilevare alcune convergenze tra le parole di assistenti sociali e tirocinanti in merito al processo di formazione dell’identità professionale così come alla necessità per chi lavora nei servizi e per chi ancora studia di raccontare la professione adottando un punto di vista interno; ciò per tentare di combattere l’ancora avvertito pregiudizio alimentato dal senso comune e ancorato a retaggi socio-culturali obsoleti che descrivono l’assistente sociale come una figura altra rispetto a ciò che realmente é.

Il lavoro è stato intenso, travolgente, un raccontarsi emotivamente orientato, una rielaborazione attenta che è riuscita a scavare nel passato andando in profondità, fino a recuperare le  motivazioni che hanno condotto ad intraprendere questo cammino professionale.

Spesso, è emerso dai racconti, sono le esperienze personali ad aver portato tra questi banchi universitari e non altrove: vissuti di perdita, di violenza, di abbandono, di solitudine, una propensione all’aiuto incondizionata.

Sono le ferite, non solo sul corpo bensì nell’anima, i ‘vuoti’ sperimentati che hanno distrutto dentro ed i ‘pieni’ che hanno ricostruito un po’ fuori.

A volte, si decide di svolgere questa professione perché si vuole tendere a qualcun altro quella mano che a noi è mancata.

Si decide di voler diventare assistenti sociali per aver cura dell’altro e, così, curare anche un po’ se stessi.

Scrivere un racconto autobiografico, in questo frangente, ha avuto il valore della ri-scoperta.

Alla domanda ⸺ Cosa significa essere assistente sociale? ⸺ Non vi è un’unanime risposta.

Scrivere un racconto su cosa significhi svolgere questa professione ha significato: scoprire l’empatia, prendere coscienza dei limiti professionali, voler essere una luce nell’oscurità, realizzare che ricordare è ancora possibile, riflettere su quanto sia necessario lottare per difendere la propria identità professionale, rivivere le vittorie e le sconfitte senza trucchi né inganni, palesando le contraddizioni esistenti tra teoria e prassi operativa e la difficoltà sperimentata come professionisti e come persone, quando si accompagna un essere umano, sia esso donna, madre, uomo, padre, figlio, figlia, ad allontanarsi.

Nell’incontro dimostrativo, abbiamo chiesto ai collaboratori/scrittori di ripensare all’esperienza di narrazione vissuta. In sostanza la domanda posta loro è stata: Cosa avete provato scrivendo?

 

‘E’ utile rappresentare a me ed altri il mio essere «assistente»-«sociale».’

‘Spostare timidamente l’angolo del velo posto sopra la professione.’

‘Trovare tempo per farsi del bene.’

‘Liberazione e rinascita nel mio percorso quotidiano annebbiato da tempo.’

‘Rispondere e rielaborare senza limiti e confini.’

‘Andare oltre i propri limiti aiuta a migliorarsi.’

‘Per amore devi saper lasciare andare.’

 

Questo è ciò che hanno scritto. Questo è ciò che hanno provato.

Raccogliendo i loro racconti io sono entrata un po’ a far parte delle loro storie.

Le ho maneggiate con cura come si è soliti fare con tutto ciò che è delicato e ne ho avuto rispetto, perché una sola cosa era certa:

Siamo stati, insieme, come l’equipaggio di una grande imbarcazione.

Ma non ero io ad essere al timone della loro nave.

Quel posto spettava di diritto a loro, perché ne erano i comandanti.