A donarci il secondo articolo sul tema della sofferenza è Cristina Mantelli, collega assistente sociale che lavora all’interno dei servizi alla persona ormai da diversi anni!

Amica di Assistenti Sociali Online, ha conosciuto una di noi tra i banchi del primo anno del corso di laurea, una professionista preparata, una donna in rinascita, una mamma speciale ed un’artista di talento!

E parlo di dono perchè Cristina si mette a nudo e ci racconta in modo semplice e diretto un pezzo del suo cammino, a dimostrazione del fatto che gli operatori sociali non sono immuni dalla sofferenza, impariamo anche noi ad attraversarla e ci mettiamo a confronto con la nostra resilienza!

Mettetevi comodi, respirate profondamente e iniziate la lettura!

 

 

Addomesticare il lupo

 

“sofferènza (ant. soffrènza) s. f. [dal lat. tardo sufferentia «sopportazione, pazienza», der. di suffĕrens -entis «sofferente»]. – 1. Il fatto di soffrire dolori fisici o morali: la sua s. mi fa pena; non pensate alle s. di quella povera gente?; e quasi proverbiale: la vita è una gran s., è tutta una sofferenza. Con valore più concr., soprattutto al plur., dolore, patimento: morì tra le più atroci s.; una vita piena di sofferenze. 2. ant. Capacità di sopportare, sopportazione, pazienza: parendo tempo a Gualtieri di fare l’ultima pruova della sofferenza di costei (Boccaccio); questo è un volere provocare la mia sofferenza (Goldoni). 3. Nell’uso comm. e bancario si dicono in sofferenza (o anche, correntemente, sofferenze) gli effetti cambiarî e in genere i crediti non pagati alla loro scadenza e per il recupero dei quali sono in corso atti esecutivi: cambiali, tratte in s.; il pagamento della seconda rata è in s. da più di un mese.” (Treccani)

Il termine  mi richiama l’immagine di qualcosa che perdura nel tempo, che rimane, o che per lo meno abbia bisogno di azioni consapevoli e decise per il cambiamento di stato.

I santi e i martiri credo sappiano spiegare cosa sia la sofferenza e come affrontarla.  Io non sono  né l’uno né l’altro e ci sono molto lontana, ma provo a raccontare qual è stata (ed è) la mia relazione con la sofferenza.

Ho imparato che la sofferenza, spesso inevitabile, è un cammino. Un cammino di una durata variabile, alle volte infinito. Per me è stato entrare in una bufera e attraversare diversi stadi. Non c’è una cartina che possa aiutare o alleggerire il percorso.  Ma credo che la condivisione di un’esperienza possa aiutare a non sentirsi marziani sulla terra.

Ho vissuto un primo momento di inconsapevolezza. Il momento in cui non capisci. Avevo  la consapevolezza di stare male ma le difese personali mi schermavano un poco dallo scontro diretto con la realtà. Provo a spiegare. Vivevo cercando il più possibile di essere aderente a quella  che era la normalità e la quotidianità di sempre. Perché credevo che in questo modo potessi sconfiggere il dolore. Mi concedevo pochi e circoscritti spazi in cui lasciavo tracimare il dolore. Non mi concedevo ulteriori momenti, non permettevo che la sofferenza avesse il sopravvento. Ritenevo che questo fosse il modo giusto per non far vincere il dolore.  Ma la compressione non è mai una buona soluzione. La compressione delle cose, all’interno di spazi troppi stretti, non è mai presupposto di sane conclusioni. E alle volte i posti dove comprimiamo il dolore e la sofferenza  per non vederli,  sono posti molto più piccoli del dovuto.  Come pessimi ingegneri, sovrastimiamo il nostro spazio interiore e sottostimiamo il dolore provato. Ma pur non essendo molto brava in fisica (e a questo punto pessima ingegnera) so per certo che troppa pressione all’interno di una scatola, prima o poi porterà all’esplosione. E l’esplosione è di per sé un atto violento e fautore di danni.  Ma tu non lo sai e vai in giro con una bomba ad orologeria nella pancia. O nel cuore.  Però ho scoperto che spesso lo sanno gli altri. Quelli che ti stanno vicino e ti conoscono bene. E se ti sono vicini davvero, sono gli unici che sapranno raccogliere i pezzi dell’esplosione e non lamentarsi se, nell’esplosione, anche loro un pochino si faranno del male.

Dopo questo momento credo di aver avuto davanti due strade da attraversare: l’esplosione forte, improvvisa e devastante o la decompressione fatta da mani esperte.

In qualche modo ho scelto la seconda.  Se con l’inconsapevolezza le scelte si possono chiamare tali.

Per quella che è la mia esperienza, per arrivare alla decompressione, bisogna passare dal riconoscimento.  Bisogna dirsi cosa ci sta facendo soffrire, darle un nome e una causa, bisogna imparare a guardare il lupo negli occhi per poterlo poi riconoscere quando lo si sente arrivare. Bisogna essere Cappuccetto Rosso. Anzi, bisogna pensare di diventare un Cappuccetto Rosso Speciale.Perché al  posto di camminare inconsapevoli  e poi spaventati nel bosco, come fa la bimba con le treccine e il mantello,  bisogna adottare  una strategia diversa. Fermarsi un attimo, richiamare le ultime energie rimaste e poco alla volta  addomesticare quel lupo.

 

Imparare a riconoscere l’odore, il suono dei suoi passi. Imparare ad alzare la testa e guardarlo negli occhi, chiedergli nome. Dichiarargli la nostra paura, il nostro star male. E dopo un po’ di tempo chiedergli il permesso di passare o per lo meno il camminare a fianco e di spaventarci un po’ meno.  Ecco che avviene la decompressione.

Non è facile arrivare alla decompressione e diventare Cappuccetti Rossi speciali. Non è facile accettare la sofferenza e quindi capire che è necessario fare qualcosa per aiutarsi o essere aiutati.  Accettare di stare soffrendo apre le porte a tanti altri discorsi: accettare di essere fragili, di aver incontrato un limite, scoprire di non essere invincibile, di dare un’immagine di sé diversa da quella che vorremmo dare o che abbiamo sempre dato. Accettare di stare soffrendo apre le porte alla rabbia.

Ma voglio fermarmi ancora a come si può diventare Cappuccetti Rossi speciali, come arrivare alla decompressione. Per quella che è la mia esperienza, è stato fondamentale l’aiuto che ho ricevuto dell’esterno. L’aiuto di uno specialista, nel caso di una psicologa. Ho trovato importante la possibilità di avere accanto una persona esperta che mi aiutasse a fermarmi dentro il bosco. Che mi aiutasse a riconoscere il lupo un elemento alla volta e che poi me lo restituisse intero, con un nome.  Anche perché, se è vero che la sofferenza è un cammino, sovente si torna indietro ( a cercare ciò che si perde, a ritrovare un posto amico…) e la strada sulla quale si cammina non è mai la stessa: si attraversano salite, pianori e discese, in ordine casuale e vario. Avere la possibilità di qualcuno che ci sta affianco, che fa il tifo per noi e ci offre l’attrezzatura giusta per affrontare il sentiero è importante.  E’ importante per evitare di esplodere e aggiungere sofferenza alla sofferenza.  E’ importante perché ci restituisce un senso alle cose, laddove sensi ce ne sono pochi.

Nelle prime righe ho raccontato di quando pensavo a sconfiggere la sofferenza tacendola.  Non so a che punto sono di quel cammino. Oggi ho capito che un modo per sconfiggerla è riuscire a trasformarla. E’ riuscire a trovare le cose belle, l’amore per la vita nonostante tutto il dolore che si prova.  Come fare? Una delle cose che mi hanno aiutato è stato pensare e constatare che a fronte delle persone che non sono riuscite a starmi accanto (perchè la sofferenza degli altri spaventa e fa paura ma è l’unica che possiamo schivare),  ne ho (ri)-trovate e scoperte altre che hanno arricchito e arricchiscono la mia vita e che sono state ottime compagni di viaggio. Queste persone mi hanno aiutato a conquistare il mantello di Cappuccetto Rosso speciale  che ogni tanto riesco ad indossare anche io.

La sofferenza come qualcosa che perdura nel tempo. La necessità di azioni consapevoli per attenuarla.  Alle volte penso che in parte la sofferenza rimarrà sempre. Ma penso che saperla attraversare, nel migliore dei modi che ci concediamo, ci aiuta a sviluppare quel concetto (molto di moda in questi tempi) che è la Resilienza.  Ma questa è un’altra storia.