Eccoci ad nuovo mese e ad un nuovo tema! 
Il tema di Novembre è: DEVIARE e non potremmo iniziare meglio che con il contributo di Ludovico Grasso psicologo e formatore incontrato da una di noi all’ UEPE di Novara presso cui  è stato possibile con lui collaborare in favore delle persone in esecuzione penale esterna e sottoposte ad indagine per l’ottenimento di misure alternative alla detenzione e misure di comunità. 
Ludovico ha lavorato per dieci anni  al Gruppo Abele,  per lui una vera e propria scuola di formazione personale prima che professionale ed occasione di apprendere che cosa vuol dire dare alla persona che incontri vera centralità e per altri dieci anni – ed oltre – ha  speso la sua competenza nel campo dell’esecuzione penale, esterna e carceraria in cui il gioco di equilibrio necessario è stato  non lasciarsi fagocitare dall’istituzione e conservare autonomia di giudizio e senso critico.
Un professionista capace di esercitare il proprio “mestiere” 
al contempo con leggerezza ed estrema competenza e coerenza,
una specie rara e rassicurante da incontrare alla quale non potevamo non chiedere di raccontarci qualcosa sul tema del mese! 
Ecco a voi il suo contributo, buona lettura ! 
Grazie di cuore Ludovico! 
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DEVIARE
Alla percezione comune del “deviare” come l’atto inteso ad infrangere norme e aspettative condivise e perciò contrastato da processi sanzionatori, di riprovazione o esclusione sociale, si associa, anzi si sovrappone, un immaginario collettivo sin dalla notte dei tempi colonizzato da due figure: quella del malato (specie se “di mente”) e quella del criminale (colui che commette un reato). In Storia della follia, Foucault mette in luce come, a partire dall’età classica, le due abbiano condiviso sorte e destino, accomunate dallo stesso sentimento di rigetto da parte della collettività e ghettizzate in (quale strumento di allontanamento da sè) analoghe istituzioni.
Un romanzo distopico e suoi scenari in tema di malattia e criminalità
Nel 1872 un romanziere anglosassone di nome Samuel Butler pubblica Erewhon, sua prima opera. Il carattere distopico del testo è espresso già a partire dal gioco enigmistico contenuto nel titolo: lo si ottiene infatti anagrammando la parola nowhere (seppur invertendo l’ordine delle lettere w ed h). Vi si narra di Higgs e del suo ingresso in una comunità in cui la malattia è considerata reato, il reato viene considerato malattia. Il malato è responsabile dei propri stati patologici, di ciò colpevole e perciò oggetto di sanzione e imprigionato nel tentativo di correggerne la natura “deviata”. Il criminale, non responsabile di atti i quali dipendono invece dall’azione di forze esterne all’individuo, indipendenti dal suo controllo, viene ricoverato in apposite cliniche e “trattato” nel tentativo di guarire.Ad un primo livello di lettura del testo, due paradigmi tipicamente vittoriani, che nei valori di quell’epoca trovarono linfa necessaria al proprio sviluppo, ma poi capaci di diffondersi in breve tempo per tutto l’occidente: l’intervento “correzionalista” da parte del sistema penale e quello “ortopedico” medico-ospedaliero vengono dunque rovesciati e posti in discussione tramite il codice della satira.Il secondo livello è più interessante ancora: come ogni dis-topia, anche questa può esser presa e usata come profezia e riportata al contemporaneo quale lente di osservazione originale e inedita. Accade così di accorgersi di un altro giochino enigmistico contenuto nel titolo: scomponibile non solo in no-where (nessun luogo), ma anche in now-here (qui ed ora).Individualizzazione della malattia e colpevolizzazione del malato
La malattia, condizione non predeterminata dalla natura, si trova inevitabilmente a dipendere in ampia misura dal contesto, ossia dalla norme e dai valori sociali che ne fanno da sfondo, oltrechè dal quadro economico, culturale e scientifico di riferimento. Le concezioni mediche in tema di malattia variano di periodo in periodo, respirano l’atmosfera culturale del tempo e sono perciò del tutto storicizzabili.L’interpretazione contemporanea di essa è per molti versi riconducibile ai processi di individualizzazione che pervadono la società tutta e la nostra cultura. Accade così sempre più spesso di assistere alla tendenza, in ambito medico e sanitario, ad attribuire all’individuo alcune delle cause responsabili del processo patologico. Il concetto di stile di vita diventa il fulcro sul quale ogni strategia di prevenzione prende le mosse.
L’educazione sanitaria individua e promuove profilassi finalizzate all’adozione di comportamenti salubri e campagne
di persuasione specifiche.
E chi non si attiene? Chi non recepisce e recalcitra? Egli verrà esplicitamente o meno ripreso, ri-provato e in qualche caso anche sanzionato, non solo dall’autorità medica, ma anche dall’opinione pubblica.
Non è forse questo il caso delle campagne antifumo (il linguaggio giornalistico parla spesso non a caso di “crociate anti-fumo”), laddove i fumatori “incalliti” vengono colpevolizzati, etichettati, sanzionati (con le tasse sul consumo di tabacco) e, perchè no, anche emarginati con i divieti di fumo in luoghi pubblici?Nel 2008, l’allora primo ministro britannico avanzò una proposta di riforma del sistema sanitario fondato su una riscrittura del contratto tra cittadini e stato: ai pazienti risultanti adottare stili di vita poco sani o comunque non rispettosi delle linee di indirizzo in tema di salute si sarebbe sospeso il diritto di ricevere cure gratuite e applicato l’intero loro costo. Il fatto di prevedere, quale strumento di riprovazione sociale in risposta ad un comportamento dannoso sul piano della salute e delle finanze pubbliche, una sanzione, avrebbe configurato
il responsabile quale vero e proprio colpevole .E una politica penale che infantilizza
A fronte di un’opinione pubblica da sempre orientata alla colpevolizzazione dell’autore di reato, e per nulla disposta alla sua giustificazione, sino ad estremi di atteggiamenti da un lato pregiudizialmente orientati all’attribuzione di colpa e dall’altro eccessivamente rigidi (buttate la chiave, please), il sistema penale italiano nasce su un impianto, quello disegnato dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, fondamentalmente di stampo medico-ortopedico (prova ne sono i termini diagnosi , prognosi e riabilitazione nell’indicare fasi e obiettivi del trattamento ). Nei fatti, il sistema non mira, anzi aborre la colpevolizzazione
dell’autore di reato e il castigo quale strumento di redenzione.Nel registrare l’enorme progresso che quella legge determinò nelle carceri italiane sia dal punto di vista umanistico che da quello puramente utilitaristico (cioè in una prospettiva di efficacia della pena nel prevenire la recidiva), non possono sfuggire alcune distorsioni che tale modello, forse perchè non pienamento attuato nei fatti e nella non disponibilità delle risorse necessarie, evidenzia.

La quotidianità in carcere, parimenti a ciò che accade in istituzioni più propriamente finalizzate alla cura come gli ospedali, vede il destinatario dell’intervento passivizzarsi, farsi per l’appunto “paziente”, oggetto e non attore delle prestazioni che riceve. In una parola, ciò che pare di osservare in carcere è l’infantilizzazione del detenuto. Se non “malato”, egli è agli occhi di chi vi opera altra tipologia di minus. Prova di ciò ne è il gergo carcerario e il largo suo impiego di diminutivi: la domanda con cui il detenuto esprime un bisogno viene
detta “domandina”, l’addetto alla spesa è detto “spesino”, ecc.

Una più moderna concezione della pena
Il problema è insito nella stessa concezione della pena, laddove da chi commette un reato non ci si aspetta, come tra adulti nelle relazioni di tutti i giorni, un’assunzione piena e diretta della paternità di quanto agito nei confronti della vittima (diretta o indiretta che sia) e un’attivazione, in prima persona, affinchè l’offesa sia rimarginata. Ciò che ci si aspetta è che egli soffra, in misura proporzionale al reato commesso e con ciò apprenda la lezione e capisca il valore di ciò che ha infranto.
É tutto qualcosa di un po’ troppo simile alla scena del genitore che mette in castigo il figlio autore di qualche marachella.
E’ possibile immaginare tutt’altro modo di “pagare” i reati commessi?
Secondo una diversa filosofia, quella propria alla giustizia “riparativa”, la cosa più importante non è retribuire la vittima e la collettività con la pena (cioè sofferenza) comminata, ma chiedere al responsabile di rimediare di “tasca propria” al danno commesso andando incontro alla vittima, ascoltandola nel suo dolore, interrogandosi circa le modalità con cui risarcirla.

Nè colpevolizzazione, nè patologizzazione del deviante: tertium non datur?
Delle due comuni e opposte tendenze qui discusse, l’una volta alla simbolizzazione del deviante quale colpevole, l’altra alla sua riduzione in stato di malato, abbiamo discusso di quali nefaste conseguenze esse comportino. Sostanzialmente entrambe sono unite nel fare dell’altro un oggetto di rappresentazioni ed intenzioni unilaterali, parte di un gioco di potere asimmetrico in cui viene definito a priori e in cui non ha alcun diritto di parola.

In Ulisse, Edipo e la Sfinge: il formatore tra Scilla e Cariddi (in R. Speziale-Bagliacca, Formazione e percezione psicoanalitica, Milano, 1980), E. Enriquez mette in guardia,chiunque si proponga di lavorare con l’altro al fine di promuovere il suo cambiamento, dai rischi connessi alla simbolizzazione inconscia di alcune fondamentali figure della nostra cultura quali quelle sopra esposte.
Aderire totalmente e unicamente a una di queste, ammonisce, cercare di imprimerle su coloro che incontriamo in contesti quali quelli terapeutici, educativi, assistenziali, cioè concretizzarle in un progetto su e non con l’altro, significa agire una violenza che prima o poi rischia di ritorcersi contro noi stessi. Riconoscere invece dentro di sé il potere di tali immagini e interrogarsi sui meccanismi su cui si fonda e sulle conseguenze che ciò può produrre sugli altri, è l’unico strumento che renda possibile la navigazione in un mare tempestoso quale
quello dato dall’incontro con l’altro e la sua irriducibile e insoffocabile libertà.