Brand, business, mercato, clienti, catalogo prodotti, concorrenza, logo, marketing, sono tutte parole che abbiamo necessariamente imparato ad utilizzare per creare, definire e realizzare il nostro progetto di libera professione, per spiegare in modo sintetico prima a noi stesse ed in seguito a chi ci incontra quello che facciamo, come lo facciamo, con chi lo facciamo, con quali risultati ed infine, come lo pubblicizziamo!

 

Abbiamo lavorato sulle nostre competenze (possedute e da costruire), sugli ambiti d’intervento in cui ci sentiamo pronte ad operare, sulla domanda presente nei nostri territori ed il modo in cui intercettarla, sui processi e sulle relazioni da attivare, sulle nostre specificità, sul nostro tariffario, sull’immagine che scegliamo di noi come professioniste e sui luoghi (reali e virtuali) in cui essere presenti

 

La trasformazione di un saper essere, saper fare, sapere e saper divenire in un marchio commerciale pare sia una faccenda assai complessa per chi arriva da una professione sociale di aiuto che con il business ha apparentemente poco a che fare. Ed invece l’intero processo ci ha dimostrato esattamente il contrario, i valori dell’imprenditorialità possono sono uno stimolo per i professionisti del sociale, nell’ottica di una mescolanza di idee che provengono da fonti, ambienti ed ambiti operativi differenti che qualcuno ricompone in modi capaci di produrre nuove soluzioni!

Vi riportiamo alcune riflessioni derivanti da quanto socializzato dai diversi relatori nel convegno “Libera ..la professione. IdeAzioni sulla libera professione degli assistenti sociali” tenutosi a Genova il 20 giugno 2014.

 

Gli assistenti sociali sono una delle poche categorie che problematizzano la libera professione, alla base di questo atteggiamento della nostra comunità professionale  possiamo ritrovare un aspetto culturale importante ed un’impropria rappresentazione della professione.

 

La nostra identità professionale è legata ad un sistema di valori e principi su cui la nostra professione si fonda ed è strettamente ancorata, scegliere di lavorare nel mercato, al di fuori di un ente pubblico, privato e/o del terzo settore, oppure in aree al di fuori del bisogno tradizionalmente inteso, ed ancora con persone appartenenti ad una classe sociale non classicamente svantaggiata, fa apparire la scelta come un tradimento alla natura della professione, un forzatura. Un po’ come se sentissimo venir meno la dignità di una professione spesa in maniera diversa, và ricordato che il nostro codice deontologico però prevede al libera professione all’art.52 e non delinea differenze di valori, di principi di riferimenti rispetto ad altre posizioni lavorative e mantiene quindi la mission professionale.

 

La seconda questione è legata invece a come noi ci rappresentiamo e come rappresentiamo la professione. Tutte le volte che si parla di libera professione usiamo parole come libertà, autonomia, creatività, entusiasmo, flessibilità, tutti termini che la connotano in senso positivo in contrapposizione alle coloriture più negative, fatica, rischio, operosità, procedure, impegni apparentemente tipiche del lavoro pubblico/dipendente. Occorre considerare le due connotazioni come facce di una stessa medaglia, che caratterizzano l’attività professionale del lavoratore dipendente e del libero professionista con le specificità di ciascuno.

 

Ogni professionista dovrebbe avere il tempo e lo spazio per ripensare alla professione nella sua identità e nel percepito di ogni assistente sociale, alle proprie competenze, ai metodi, ai linguaggi, per creare nuove conoscenze, per scegliere un ruolo nella società di riferimento, guardare oltre e soprattutto trovare soddisfazione nel proprio agire!

 

Occorre reinterpretare costantemente le professioni di aiuto, incentrate sulla produzione di beni relazionali e non su prodotti prestazionali ad elevata standardizzazione!