Primo articolo del mese sul tema delle dis-organizzazioni!

Vi presento l’autrice:

Appassionata di musica e innamorata del mare, da quando era bambina, un’ASSISTENTE SOCIALE creativa ed una LIFE E FAMILY COACH curiosa.

Se fosse musica sarebbe una canzone rock: ALIVE dei Pearl Jam.

Dopo 9 anni di lavoro in diversi Servizi Sociali territoriali ha sentito il bisogno di formarsi, aprirsi a nuove prospettive di lavoro con le persone e riscoprirsi con il coaching.

Dal Settembre 2016 ha intrapreso l’avventura della LIBERA PROFESSIONE per potersi definire come RISORSA per le persone in completa AUTONOMIA e LIBERTA’.

Chi lavora con lei la definisce una presenza utile e piacevole
ma anche “una esplosione di colori”.

Continua a formarsi, per essere sempre aggiornata, ma soprattutto perché ama le novità e crede che valorizzare e coltivare una sana attitudine all’allenamento sia il valore aggiunto di una vera professionalità.

Nel suo lavoro con e per le persone, così come nella sua cucina, tende a valorizzare le diversità e a scovare il valore aggiunto dei contrasti, lavorando con la passione e la determinazione che la caratterizzano …da sempre

Vi ricorda qualcuno? Ma certo, è lei! Cristina Riggio!!

Cristina non vi  racconta  tutte le forme di organizzazione e non  esaurisce tutti gli approfondimenti relativi al tema, ma vi parla semplicemente di cosa abbiamo appreso e visto finora nelle organizzazioni in cui abbiamo lavorato e perché riteniamo utile proporre interventi a favore delle organizzazioni

 

THESE-ORGANIZZAZIONI

 

Questo mese abbiamo lanciato un tema complicato, impegnativo ma al contempo importante e necessario: le organizzazioni.

Lo abbiamo proposto, non soltanto perché le organizzazioni sono tra i nostri potenziali clienti e beneficiari di percorsi,  ma anche perché come assistenti sociali, ex- studentesse, membri di una famiglia, cittadine siamo state, e quotidianamente siamo, a contatto con diverse forme di organizzazione.

E allora apriamo le danze…ed iniziamo a parlarci di queste organizzazioni,  anzi di “these – organizzazioni” .

 

Bonazzi nell’Enciclopedia delle scienze sociali introduce la definizione di “organizzazione” partendo da un distinguo : “il termine ‘organizzazione’ viene generalmente usato in una doppia accezione. Nella prima si intende il modo in cui le varie parti o componenti di un ente sono dinamicamente connesse e coordinate tra loro” (organizzazione domestica, della vita quotidiana, del lavoro, di un viaggio o di una festa ), in tale accezione “il termine organizzazione non è patrimonio di una specifica branca disciplinare, ma è usato – oltre che nel linguaggio quotidiano – in pressoché tutte le scienze sociali nonché in numerose scienze naturali che, come la biologia e l’etologia, hanno per oggetto di studio organismi viventi o aggregati di organismi viventi”.  L’etimo della parola stessa rimanda infatti al concetto di “organo”. Nella seconda accezione il termine “organizzazione” è utilizzato  per “denotare una determinata categoria di enti sociali fondati sulla divisione del lavoro e delle competenze: imprese economiche, amministrazioni pubbliche, partiti politici, associazioni culturali, religiose, sportive, ecc. In questa accezione le organizzazioni sono oggetto di discipline specifiche come la teoria d’impresa, il comportamento organizzativo e soprattutto la sociologia e la psicologia delle organizzazioni”. Le organizzazioni sono in questa ultima accezione strumenti favorevoli al funzionamento di un sistema, un insieme di elementi formalmente uniti per essere utili, conseguire obiettivi e raggiungere risultati che ciascun singolo elemento non potrebbe, o difficilmente riuscirebbe, assolvere o raggiungere autonomamente.

Nei percorsi che offriamo alle organizzazioni in qualità di Assistenti Sociali e coach il nostro obiettivo è occuparci di queste due definizioni considerandole in una unica integrata accezione.

Un ulteriore distinguo da fare quando si parla di organizzazioni è che queste possono definirsi come formali o complesse. Le prime nascono dall’aggregazione spontanea dei membri e, perché siano socialmente riconosciute, necessitano di un atto costitutivo dotato di validità legale che stabilisca i fini istituzionali dell’organizzazione stessa. Le seconde si contraddistinguono per “la complessità della loro struttura interna, normalmente ispirata a criteri di divisione del lavoro e delle competenze” (Giuseppe Bonazzi – Enciclopedia delle scienze sociali )

Se qualcuno di voi conosce la sigla ISO 9000 sa bene che questa  rimanda alle linee guida ed a una   normativa identificate dalla International Organization for Standardization – che definiscono quei requisiti per la realizzazione di un sistema di gestione della qualità, utile a condurre processi, migliorare efficienza e efficacia sia nella realizzazione di un  prodotto che nell’erogazione di servizi,  qualità incide negli esiti di soddisfazione della clientela e/o dei beneficiari. Le organizzazioni sono, secondo quanto definito dell’ISO 9000, le seguenti: gruppi societari, le società, gli enti pubblici, le divisioni, gli studi professionali e le associazioni .

Per produrre, realizzare e garantire processi efficaci ed efficienti, nonchè prodotti soddisfacenti è importante che ciascuna organizzazione abbia quindi dei requisiti minimi di qualità.

L’obiettivo di questo primo articolo non è  parlare di tutte le forme di organizzazione ed esaurire tutti gli approfondimenti relativi al tema della qualità, né raccontarvi un catastrofico stato dell’arte delle organizzazioni ma parlare semplicemente di cosa abbiamo appreso e visto finora nelle organizzazioni in cui abbiamo lavorato e perché riteniamo utile proporre interventi a favore delle organizzazioni.

Nell’ambito del servizio sociale e dei servizi pubblici in generale, e inutile girarci intorno, risulta ancora ad oggi essere prevalente un modello organizzativo di tipo complesso e  burocratico i  cui  principi cardine sono

  • razionalità;
  • imparzialità;
  • impersonalità;

e le cui tipiche modalità di funzionamento fanno riferimento alla teoria della stratificazione delle competenze e, se proprio stiamo parlando di enti evoluti ed attenti al benessere organizzativo, alla “teoria delle relazioni umane” di E.Mayo. Diversi critici sottolineano come questa teoria, più che indirizzare verso un reale correttivo in termini di attenzione alla componente umana ed alla cooperazione, vuole essere giustificativa rispetto a  logiche produttive di stampo taylorista, per capirci quella che viene chiamata “sociologia delle mucche”: le mucche/ lavoratori  soddisfatti producono più latte/ lavorano meglio.

Se l’umanizzazione del luogo di lavoro quale strumento per incrementare la produttività, già dagli anni ’40 e ’50 è stato oggetto dell’attenzione, soprattutto del mondo aziendale, nel pubblico è arrivata anche dopo, e solo negli anni ‘60 in Italia il benessere dei dipendenti viene riconosciuto come un valido obiettivo del disegno organizzativo, fulgido esempio piemontesissimo è l’intera, immensa e complessa esperienza di Olivetti (che ovviamente non abbiamo l’ambizione di sintetizzare in breve e  raccontare in questo articolo).

Date le caratteristiche dell’organizzazione burocratica di molti servizi,  intesa come definizione delle relazioni in termini di potere e subordinazione,  spesso i membri della stessa cessano di avere un ruolo attivo per l’evoluzione e il miglioramento della realtà organizzativa. La realtà organizzativa diventa infatti maggiormente finalizzata a difendere i confini della propria nicchia di potere in “ positivo” (tutte le prescrizioni sul personale tendono ad esempio a  ridurre al minimo  le relazioni interpersonali, rendendo possibile un comportamento indolente, o pensiamo al “dividi et impera” che vige in molti servizi organizzati per aree di intervento) o in negativo (le norme legittimano le posizioni delle cariche elettive ma allo stesso tempo limitano il potere di questi).

Tutte reazioni definibili con il  termine “recalcitranza”  (Bonazzi G. (2000) “Storia del pensiero organizzativo”, Franco Angeli, Milano, p. 257) movimenti che dimostrano  la naturale avversione dell’essere umano all’assimilazione dell’organizzazione intesa come strumentalizzazione dei propri membri. Questa perversione induce le organizzazioni, erroneamente, a enfatizzare esiti di efficienza a discapito dei percorsi utili all’efficacia delle prestazioni professionali dei suoi membri ed induce le persone in parallelo a crearsi delle nicchie per sfuggire ai controlli ed agli imbrigliamenti  dell’organizzazione, le cui regole,  perdendo totalmente la funzione  integratoria,  assumono un solo valore  sanzionatorio.

Ora, affermare che una organizzazione  in cui gli operatori sociali, impegnati nel sostenere il valore individuale delle persone, la loro responsabilizzazione, nel dare rilievo alla loro dignità ed unicità ed alla loro autodeterminazione, possa giovare nell’imbrigliare i propri operatori in un sistema in cui recalcitranza, perdita della cultura organizzativa la fanno da padrone non è la prospettiva più allettante .

Lo stesso Weber affermava che sebbene precisione, rapidità,  univocità degli atti, continuità, discrezione, coesione, rigida subordinazione, riduzione dei contrasti […] danno all’amministrazione burocratica una indiscutibile superiorità tecnica, tale superiorità non è di per sé motivo di positività.  La razionalità rispetto allo scopo, tipica della burocrazia, è uno strumento ambiguo che può essere usato per fini vantaggiosi per l’umanità, ma anche per fini distruttivi e di dominio sull’altro.

La complessità dei bisogni e delle istanze sociali, la necessità dell’utilizzo della flessibilità e della creatività come strumenti professionali per la definizione di percorsi con persone utili a perseguire il loro benessere, poco si concilia con concetti come “impersonalità”, “imparzialità”  ed il dominio sull’altrui volere.

Un modello di riferimento utile a innescare riflessioni finalizzate a contenere la complessità organizzativa dei servizi sociali, giunge finalmente nel mondo della sociologia delle organizzazioni grazie a Talcott Parsons,  la cui  teoria generale della società concepita come un sistema sociale, e la conseguente concettualizzazione delle organizzazioni come sistemi aperti e comunicanti tra loro, getta le basi per la definizione del funzionamento organizzativo  “AGIL”.

Secondo Parsons tutti  i sistemi sociali devono rispondere a 4 necessità: adattamento, raggiungimento degli obbiettivi, integrazione, e latenza o mantenimento.

Un modello piuttosto generale applicabile a tutti i tipi di sistemi sociali ed alle organizzazioni,  che  inizia a parlare delle stesse come  sistemi viventi di soggetti che non interagiscono solo in base a rapporti economici ed interni,  ma in base a fattori ben più complessi anche esogeni non soltanto psicologici ed emotivi, come sosteneva E. Mayo nella sua teorie delle relazioni umane, ma anche culturali, sociali, eminentemente etici.

Una ulteriore evoluzione del pensiero organizzativo è stata quella che dal  funzionalismo sistemico di Parsons ha portato alla rivoluzione teorica di Herbert Simon che amplia la visione partendo da 3 concetti:

  • l’oggetto dell’analisi organizzativa non deve essere l’organizzazione in quanto tale, bensì il comportamento degli esseri umani all’interno delle organizzazioni, ovvero quei processi decisionali afferenti le  persone facenti parte delle organizzazioni, generalmente raggruppate in coalizioni;
  •  le persone hanno una razionalità limitata: non decidono in base al principio della massima ottimizzazione dei risultati bensì in base ad un principio più semplice, ma assai più concreto, di ottenere risultati proporzionati al bisogno, soddisfacenti. Ciò riduce la complessità di quello che sarebbe richiesto nell’ipotesi della razionalità perfetta;
  •  gli esseri umani partecipano alle organizzazioni alla luce dell’equilibrio tra i contributi che sono tenuti a dare e gli incentivi che si attendono di ottenere, un “calcolo” che non si fonda su criteri ‘oggettivi’ ma su assiomi totalmente soggettivi delle persone coinvolte nello scambio;  equilibrio -o disequilibrio – vengono percepiti in base alla struttura delle preferenze individuali delle persone .

Simons ci avverte inoltre che anche quando il  rapporto tra contributi e incentivi non fosse in equilibrio ma fosse a danno dei benefici non è detto che questo comporti l’abbandono dell’organizzazione che , per farla breve “ci rende infelici”, perché su tale scelta incidono due ulteriori fattori: la “desiderabilità percepita” e la “facilità percepita di lasciare” . Se le persone soddisfatte è pacifico che possano restare, non è lineare il passaggio tra insoddisfazione ed abbandono. Coloro che non sono soddisfatti è molto probabile infatti che, non trovando sufficienti motivazioni intrapersonali e alternative valide sul mercato del lavoro, tenderanno a rimanere diventando vittime/co-autori di  lenti processi di rassegnazione e di assuefazione, se non a darsi alla ricerca di microsoddisfazioni  personali (remunerative sul breve periodo) perché, come nota Simon, obiettivo organizzativo non coincide, molto spesso, gli obiettivi personali dei membri.

Come fa un organismo a funzionare bene se i suoi singoli organi, i tessuti, i nervi non sono in salute?

Se all’inizio del ventunesimo secolo l’organizzazione lavorativa non prendeva in considerazione la responsabilità sociale del costruire ambienti di lavoro sicuri e salutari, nel tempo vi è stato un lento ma importante sviluppo dell’idea di salute nel lavoro, partendo dal concetto di sicurezza per poi arrivare, gradatamente, ad evidenziare vari aspetti, fino alla prevenzione .

In una parola “salute organizzativa”  ovvero  “l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando il benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative”  (Avallone et Paplomatas 2005).

Due tipologie d’intervento ritenute praticabili nell’organizzazione al fine di migliorare il benessere nell’ambiente lavorativo sono quello socio-tecnico centrato su cambiamenti di aspetti oggettivi strutturali dell’ambiente di lavoro (orario lavorativo, livelli gerarchici) e quello psicosociale i cui cambiamenti attesi sono connessi alla percezione dei lavoratori sulla propria organizzazione e sul contesto di lavoro (Health & Safety Executive,  1998) . Questi ultimi cambiamenti avvengono a seguito di  azioni concrete finalizzate a favorire l’aumento della partecipazione, della riduzione dell’ambiguità e del conflitto di ruolo, del supporto sociale e del miglioramento della comunicazione. Il management deve tenere in considerazione tre fondamentali risultati organizzativi (affettività/soddisfazione, benessere/burnout, qualità del servizio/prestazione) in relazione al clima organizzativo (D’Amato e Majer 2005) .

Il malessere sociale che accompagna l’esperienza lavorativa è purtroppo fin troppo citato e conosciuto nel campo delle professioni d’aiuto ed è chiamato con mille nomi ( sindrome da stress lavorativo e work addiction, technostress, burnout, mobbing), ma se prestassimo attenzione  analitica all’intersecarsi tra criticità organizzative e  difficoltà personali potremmo ridefinire la lettura secondo un modello più complesso e completo partendo dalla definizione di “sindrome generale di adattamento allo stress” ( Seyle , 1956).

Secondo questo illuminato, folle endocrinologo austriaco la sindrome generale di adattamento da stress ha tre fasi: allarme, resistenza ed infine esaurimento. Vi è inoltre una distinzione fondamentale  tra eustress e distress: il primo è uno stress produttivo che la persona sa e può fronteggiare, che richiede impegno all’adattamento, ma non costituisce una minaccia per il benessere personale; il secondo è uno stress negativo accompagnato da sensazioni faticose, minacciose e negative  per la persona che le sperimenta, e si presenta quando gli stress sono superiori alle capacità di tolleranza della persona e quando le pressioni esterne o interne, risultino talmente limitate da inibire le normali potenzialità di autoconservazione e ricerca del benessere.

A seguito di interventi efficaci gli indicatori positivi di benessere organizzativo che posso essere rilevati sono:

  • soddisfazione per l’organizzazione
  • voglia di impegnarsi nell’organizzazione
  • sensazione di autorealizzazione
  • convinzione di poter cambiare le condizioni negative attuali
  • rapporto equilibrato tra vita lavorativa e privata
  • relazioni interpersonali positive
  • valori organizzativi condivisi
  • credibilità del management
  • stima del management
  • percezione di successo dell’organizzazione

Il concetto di benessere organizzativo non si rifà solo al modo in cui il lavoratore vive la  relazione con l’organizzazione in cui lavora.

Quanto più i professionisti percepiscono sintonia valoriale tra intenti, azioni e strumenti dell’organizzazione, e si sentono ad essa appartenenti perché ne condividono i valori, le pratiche, i linguaggi, tanto motivazione e significato della propria azione professionale trovano terreno fertile produttivo ed efficacia. Il solo investimento in termini di efficienza, innovazione tecnologica,  differenziazione dei prodotti/servizi ed in immagine, non basta, diventa necessario tenere conto dei bisogni evolutivi di ciascun dipendente e dell’organismo vivente “organizzazione “.

E’ per tali motivi che  nei percorsi che proponiamo alle organizzazioni al fianco delle competenze tecniche sollecitiamo e attiviamo  lo sviluppo di competenze legate alla dimensione emozionale, relazionale ed una particolare attenzione al clima organizzativo.

Dal momento che noi lavoratori, professionisti, operatori sociali non siamo mucche né dovremmo ridurre energie e stimoli al nostro personale benessere, dal momento che i  bisogni sociali ( vi ricordate la piramide di Maslow che abbiamo già citato  qualche articolo fa) sono complessi ed esulano dalla sola logica dell’efficienza economica e amministrativa, è evidente che vi siano delle necessità di evoluzione, miglioramento e ripensamento organizzativo ancora da immaginare, attuare ed implementare concretamente.

Negli anni di lavoro nei servizi sociali territoriali e sanitari presso cui abbiamo esercitato la professione abbiamo incontrato “disastri” ed “eccellenze” che ci hanno fatto riflettere e immaginare percorsi per le organizzazioni .

Per capirci “abbiamo visto cose che voi umani…” … magari non solo non potreste immaginarvi ma che avete realmente conosciuto:

  • sedi di servizi dove un singolo ufficio, con 2 pc, dovevano necessariamente essere condivisi da 5 colleghi;
  • uffici in cui un collega non sa dove si trovi l’altro e se si presenta una persona che ne chiede notizia può solo  rispondere con vaghezza “provi a richiamare…a ripassare…lanci un piccione viaggiatore”;
  • uffici in cui veniva lasciato a ciascun dipendente la scelta di come gestire la documentazione di servizio con esiti perversi come: schedari vuoti  e scrivanie strapiene;
  • enti organizzati per aree di intervento in cui la mamma di una persona disabile per ottenere l’esenzione mensa dell’altro figlio minore avrebbe dovuto rivolgersi ad un’altra area….

E’ anche vero però che per ogni criticità incontrata c’è sempre stato un rovescio della medaglia da qualche parte:

  • colleghi che decidono di sedersi a tavolino e strutturare in totale autonomia  un calendario di condivisione degli spazi,
  •  servizi che hanno scelto di dotarsi di un’agenda di servizio, in cui tutti gli impegni di tutti gli operatori venivano trascritti e resi chiari e trasmissibili a tutti,
  •  servizi che tutti i lunedì decidono di  organizzare, in almeno mezzora di riunione settimanale la programmazione generale di utilizzo delle risorse (auto di servizio) e  dell’attività;
  • servizi che hanno deciso di scegliere l’utilizzo delle referenze e non delle aree di intervento.

 

Ecco… se è vero , verissimo che le organizzazioni siamo noi, essendo queste un insieme di persone concentrate verso il raggiungimento di scopi ed obiettivi comuni forse sarebbe proprio il caso di fare due ragionamenti su cosa possiamo fornire noi professionisti  alle organizzazioni  in termini evolutivi.

 

I nostri percorsi per le organizzazioni mirano proprio ad essere di stimolo affinchè proposte, concrete condivise e con-create/ co-costruite con ciascun membro possano favorire e strutturare percorsi evolutivi  dei sistemi organizzativi affinchè  ciascun membro  si senta  allineato con i propri valori e tutti si possano ritrovare attorno all’obiettivo di crescita , di sviluppo dell’essere vivente “organizzazione! !

 

Quanto più una organizzazione viene  considerata esattamente come in biologia, ovvero quel movimento di cellule, tessuti, nervi che svolgono funzioni in interazione e collaborazione per attivare processi atti allo sviluppo, alla crescita ed alla maturazione di un essere vivente, e quanto più questo processo risulta essere continuo, lasciando che le variabili endogene lo influenzino, tanto più  … come in biologia quella organizzazione sarà la più forte !